“Ogni parola ha conseguenze. Ogni silenzio anche”, ripeteva Sartre.

Per cui, meglio coltivarle quelle parole-pensieri che ci danno una mano a capire la realtà, da un lato, e dall’altro a immaginare percorsi di miglioramento, possibili soluzioni alle tante crisi dei giorni nostri.

Nel grande mondo della formazione, soprattutto. A parole, palestra di pensiero critico; in realtà, per troppi aspetti, serbatoio di schemi ideologici, di pensieri non-pensati, di abitudini e comportamenti mai da ridiscutere.



Propongo, a mo’ di indovinello, una citazione, per stuzzicare la comune riflessione su un aspetto centrale della crisi del mondo della scuola.

Dunque, che fare? Non riesco a dare una speranza senza pensare che si intervenga molto seriamente sui processi di formazione. Poi c’è un ultimo livello di formazione, quello che consiste nella selezione degli insegnanti. [ma aggiungerei: di tutti i livelli di responsabilità, dai grandi intoccabili burocrati ai decreti fatti a loro uso e consumo, sino ai direttori generali e periferici, agli ispettori, ai presidi, ai dsga]. Come si fa oggi a selezionare gli insegnanti? Tramite concorsi in cui si misura soltanto la loro cultura, ma questo può andar bene per i ricercatori, che passano il loro tempo nelle biblioteche, ma per insegnare non basta avere solo una buona cultura, è necessario avere una presa emotiva, perché dai 12 ai 18 anni anche i ragazzini ‘nuotano’ in uno scenario a forte carica emotiva ed erotica. […] Gli insegnanti devono sapere che i giovani, in quel periodo della loro vita, devono superare tanti di quei processi psichici per cui la scuola non può essere un giudizio sulla vita, ma un gioco di vita. […] devi avere delle grandi capacità di comunicazione, di fascinazione, non devi diventare amico dei tuoi studenti, perché gli amici se li trovano da loro; hanno sete di verticalità… I ragazzi desiderano l’autorità che deve essere degna di questo nome: il professore li deve affascinare.
Allora come si fa a selezionare i professori? So che loro si arrabbiano quando dico queste cose, ma sottoporrei i professori a un test di personalità, che non è scandaloso… In un colloquio di lavoro, non si fanno domande generiche, ma mirate per vedere se sei idoneo a quella funzione… Dunque, il compito di un professore è quello di comunicare e affascinare — e queste virtù non le impari, ce le hai o no.
Si crea un discrimine, una disuguaglianza? No. […] se tu non sai comunicare e prendere i ragazzi là dove sono, cioè su base emotiva e sentimentale (non, ripeto, diventando amici e complici delle loro scelleratezze), non farai l’insegnante. E poi c’è anche il fascino di una cultura seriamente esposta… Non è un caso che i ragazzi vadano malvolentieri a scuola. Ma come fai a passare 12 anni della tua vita in un contesto di noia e di demotivazione? I professori vanno selezionati con un test di personalità, altrimenti li mettiamo lì per 40 anni a demotivare gente che già non ha prospettive per il futuro



Chiedo venia per la lunga citazione. Ma credo che vada al sodo di una questione sulla quale c’è una cappa di silenzio, se non peggio. Nei termini non di un efficientismo vuoto, ma di un effettivo “servizio pubblico”, centrato quindi sugli studenti, non più autoreferente.

Il che non significa che la scuola sia tutta così. Gran parte dei nostri docenti è di valore, di spessore, in grado di trasmettere pathos anche educativo. Ma non per tutti è così, purtroppo.

Gli unici passi in questa direzione li abbiamo avuti nei concorsi per i presidi (purtroppo selettivi solo quelli “ordinari” e non in tutte le regioni, mentre quelli “riservati” sono state delle vere sanatorie) e per i docenti, con un colloquio finale (ne sono testimone, da presidente di concorso in Veneto per la A051) nel quale si capiva bene se un docente trasmetteva quel valore aggiunto.



Ma non basta che questo avvenga solo nelle prove d’ingresso, davanti ad commissari. Ci vuole poi la prova sul campo. E non si dica che l’anno di prova, previsto a tutt’oggi, serve a questo, perché in realtà è solo un atto formale. Serve una prova sul campo all’inizio, ma soprattutto in itinere. Cancellando il mito del “ruolo”, cioè del posto fisso. Perché esiste il diritto al lavoro, non al posto di lavoro. Questo diritto vale solo per merito, come esiste il diritto all’istruzione per i ragazzi, non alla promozione automatica.

Va dunque valorizzata la responsabilità di un’effettiva valutazione, come ad esempio in alcuni Paesi, con ruoli precisi al preside e al capo dipartimento eletto dai suoi colleghi, con valutazione finale da parte di un effettivo “comitato di valutazione”. Anche, nella maturazione di una valutazione, attraverso delle customer satisfaction? E perché no?

Questo, però, deve/dovrebbe valere per tutti. Anche, ad esempio, per i presidi, e su su, sino ai maggiori livelli di responsabilità. Ma, lo sappiamo, la responsabilità in Italia è un tabù. Nel senso di una autonomia che, per essere tale, deve contenere margini di responsabilità, quindi anche di discrezionalità, ovviamente con contrappesi di verifiche e garanzie.

Invece da noi si ha paura della libertà-responsabilità, quindi non si verifica, ci si affida solo al buon senso di ciascuno, per cui c’è chi fa e chi si nasconde. Magari dietro 6 politici o voti alti.

Questo è dovuto ad un vizio d’origine: pur di non assumersi delle responsabilità nella scelta di presidi, docenti, personale ci si affida, cioè ci si scarica l’anima, ai finti automatismi delle graduatorie, con le assurdità di questi giorni: “sino agli aventi diritto”. E siamo a novembre. 

La stessa immissione in ruolo di 150mila precari, prevista dal governo nella legge di stabilità, senza selezione non sui titoli culturali, ma sul valore dell’insegnamento, è l’ennesima sanatoria, l’ennesimo vulnus assistenzialistico. 

Segno che la scuola e l’avvenire dei nostri ragazzi non sono una priorità, nemmeno per questo governo.

Resta da svelare, in chiusura, l’arcano. Chi è l’autore della citazione?

Non un aziendalista, non un epigono del tempo passato, ma un guru di buona parte della cultura dominante di oggi, legata soprattutto a Repubblica.

Parlo di Umberto Galimberti. Il brano è tratto da un suo intervento contenuto nel libretto, da poco uscito, dal titolo Giovane, hai paura? (Marcianum, Venezia, 2014).