La recente pubblicazione dell’eduscopio elaborato dalla Fondazione Agnelli per stilare una classifica delle scuole secondarie superiori in alcune regioni italiane ha riportato al centro dell’attenzione un quesito non secondario: che cosa fa di una scuola una scuola di successo? Se lo chiedono da anni le organizzazioni internazionali, gli studiosi, le famiglie, perché è evidente che se fossero noti gli elementi per cui una scuola è di successo, intendendo per “successo” che mantiene gli impegni presi con gli studenti, le famiglie, la comunità civile e — nel caso italiano — lo stato che la finanzia, basterebbe riprodurre le condizioni per risolvere il problema delle “cattive” scuole. 



Ora, la definizione che ho dato di “scuola di successo” non è affatto scontata, e nemmeno condivisa: la grande passione delle famiglie e dei media per le classifiche delle scuole non tiene in conto tutti i correttivi apportati, ma solo i valori assoluti. Se un liceo porta alla maturità i suoi ragazzi con un voto medio di 97, è migliore del liceo che li porta con un voto medio di 87, e non importa che il primo riceva studenti con un rendimento atteso, date le loro condizioni socio economiche e il contesto abitativo, di 95 (quindi con un valore aggiunto di soli due punti) e il secondo riceva studenti con un rendimento atteso di 77, quindi con un valore aggiunto di dieci punti. Il primo è migliore, punto e basta.



Queste considerazioni sono schematiche e non rigorose: tra l’altro il calcolo dell’effetto scuola sugli esiti finali degli studenti in termini di apprendimento è tutt’altro che semplice. La lettura delle classifiche e delle considerazioni dell’attuale rettore del Liceo don Gnocchi di Carate Brianza, fino a pochi mesi fa preside del Sacro Cuore, liceo paritario milanese primo fra i classici e secondo fra gli scientifici, una performance davvero notevole dato che nessuna scuola secondaria statale deve impegnarsi su due indirizzi diversi, mi induce a mettere in rilievo che le aspettative delle famiglie non sono esclusivamente concentrate sulla riuscita. Montecchi sottolinea a più riprese la derivazione del modello della sua scuola dal “Rischio educativo” di don Luigi Giussani, che ha creato il metodo a cui si ispira, oltre al sacro Cuore, anche il don Gnocchi, classificatosi primo fra le scuole paritarie, e nel confronto con le statali sedicesimo su 648 licei classici e 24esimo su 1034 licei scientifici. Questo significa che le due scuole sono, come direbbero i miei colleghi sociologi, espressioni di comunità funzionali, rappresentano cioè situazioni in cui l’intero corpo docente condivide il progetto educativo (di qui l’insistenza di Montecchi sulla possibilità di scegliere i docenti, accompagnando alla qualità scientifica la motivazione ad insegnare; l’una e l’altra, da sole, non bastano). 



Il preside però trascura un elemento che considero fondamentale, e cioè che anche molta parte delle famiglie condivide, o quanto meno apprezza, la proposta educativa di queste scuole, e lo stesso avviene per i ragazzi più grandi.

Si crea quindi un circolo virtuoso che non solo rinforza le motivazioni ad apprendere, ma mira a trasmettere ai ragazzi tutti quegli “esiti non cognitivi”, come alcuni tratti della personalità o la condivisione di un sistema di valori, che sono un obiettivo non secondario dell’educazione, e per chi manda i figli alle scuole confessionali sono probabilmente altrettanto importanti della riuscita in termini di voti.  

Provo a portare un’osservazione che rinforza questa ipotesi: nelle parole del preside, il “tasso di ciellinità” (mi scuso per questa scherzosa definizione) del Sacro Cuore è superiore a quello del don Gnocchi, e si può quindi supporre che per l’uno gli esiti accademici siano meno importanti che per l’altro. Bene: il sito del don Gnocchi dedica il servizio di apertura a questa notizia, che invece nel sito del Sacro Cuore è confinata in fondo pagina, su sobrio sfondo nero… 

Insisto dunque sulla mia definizione di “successo”: una scuola deve rispondere non solo alle richieste dello stato e della comunità, incluso il mercato del lavoro per la secondaria, ma anche alle richieste più strettamente educative che provengono dalla famiglie. 

Secondo me, però, il riferimento al capitale sociale, cioè quello che deriva dalle relazioni, nel caso specifico deve tenere conto anche del capitale culturale. Montecchi nota che in altre scuole, anche statali, il livello socio-economico dei ragazzi è superiore a quello delle due in questione: io ritengo però che il livello di istruzione sia più elevato di quello economico, ad esempio con molti figli di insegnanti, e soprattutto lo sia il livello di motivazione. Se una certezza deriva da tutti i casi di sperimentazione di scuole libere che ho preso in esame nel libro che ho recentemente curato (S.O.S. educazione. Statale, paritaria: per una scuola migliore, con Giorgio Vittadini), è che quanto più una famiglia si prende a cuore l’educazione dei figli, tanto maggiore è la probabilità che essi abbiano successo, e questo vale anche per famiglie marginali, incomplete, povere. 

Chiarezza di motivazione, rigore nel metodo, coinvolgimento delle famiglie e dei ragazzi nella vita della scuola, amore al proprio lavoro, valorizzazione della ragione e dell’interezza della persona: non sono elementi esclusivi dell’impostazione cristiana delle due scuole, ma certamente incontrano più difficoltà a realizzarsi nella scuola dello stato, dove l’incontro fra alunni, insegnanti e famiglie è governato dal caso. Perché allora non puntare su di un sistema di scuole pienamente autonome, che consentano di formulare e realizzare un progetto educativo coerente con i bisogni della situazione senza imporre alle famiglie che lo cercano di sostenere un oneroso sacrificio? 

Un mio collega che ha mandato quattro figli a scuola al Sacro Cuore, e ne è stato pienamente soddisfatto, ha calcolato che avrebbe potuto comperarsi una seconda casa al mare. Considera questi come soldi ben spesi e un ottimo investimento, ma resta il fatto che se avesse fatto il bidello, questo investimento non se lo sarebbe potuto permettere: né avrebbe potuto contare su di una scuola statale con determinate caratteristiche (non migliore o peggiore, semplicemente “scelta liberamente in base a caratteristiche note” (e potrei aggiungere “certe”: i trasferimenti si aggirano intorno al 20%). E in questo sta la profonda ingiustizia della scuola italiana, che penalizza tutte le scuole, non solo quelle paritarie. 

Quanto all’obiettivo del rapporto, che è dichiaratamente quello di aiutare i ragazzi e le loro famiglie a scegliere, pur apprezzando qualsiasi informazione aggiuntiva rispetto alle poche esistenti, mi resta una perplessità. Non sarà possibile che tutti scelgano le prime venti scuole: qualcuno finirà nel liceo scientifico che si è classificato al 1304esimo posto. E allora? Che fa, si presenta davanti a Trastevere con striscioni “no liceo”? Un sistema di valutazione deve prevedere delle soluzioni per le scuole definite con  un eufemismo “non performanti”, cioè cattive. Se sono scuole private, vengono chiuse perché non ci andrà nessuno; se sono insegnanti privati, vengono licenziati, altrimenti le famiglie non manderanno i figli in quella scuola. E’ il mercato, bellezza! Ma anche nel sistema statale queste scuole, semplicemente, non devono esistere, così come non devono esistere i cattivi insegnanti, ed è compito dei decisori politici trovare una soluzione al problema. 

Un’ultima osservazione sui criteri adottati dalla Fondazione Agnelli per elaborare le sue classifiche, ampiamente illustrati nelle premesse metodologiche al rapporto. 

Dato l’obiettivo, sono ammirevolmente chiari; per chi guardi con occhio più critico, si dovrebbe però tenere conto di altri elementi, per esempio approfondendo le circostanze di contorno (status delle famiglie, livello culturale del territorio, caratteristiche dell’offerta di formazione superiore e del mercato del lavoro, che incentiva o meno il proseguimento) e degli andamenti della dispersione: se l’analisi della riuscita si fa sui diplomati, altro è che siano arrivati in quinta tutti gli iscritti in prima, altro che ne sia arrivato uno su tre, come accade in molte scuole milanesi. 

Critiche a parte, io mi auguro che questa analisi arrivi a coprire tutto il territorio nazionale, magari arricchendosi di ulteriori indicatori, e mi auguro anche che la buona posizione in classifica delle scuole paritarie induca a qualche ripensamento sulla sistematica penalizzazione che subiscono dopo le speranze suscitate ormai quindici anni fa dalla legge 62/2000.