Caro direttore,
chiedo scusa se torno a quel dibattito in salsa nostrana che plurisecolare si trascina, intellettuale dopo intellettuale, dalla Francia del XVII secolo: una polemica — allestita stavolta dalla nostra accademia — denominata “querelle des Anciens et des Modernes”.

Come tutti sanno, a Torino un mese fa si è svolto un processo  al liceo classico organizzato dalla Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo, dal Miur e da Il Mulino. Nel teatro Carignano, gremitissimo di studenti e di docenti, lì convenuti come il pubblico della trasmissione nazional-popolare “Forum”, oppure — con taglio più nobilmente letterario e reminiscenza aristofanesca — come gli spettatori del diverbio plautino tra il Discorso Giusto e Discorso Ingiusto, il liceo classico è stato assolto, perché “il fatto non sussiste”. Evviva! Ma dovrebbe essere riformato al più presto: questo il verdetto salomonico dopo un dibattimento di mezza giornata, in tempo utile per un pranzo — magari — luculliano.



L’economista Andrea Ichino e il semiologo Umberto Eco facevano la parte dell’accusa e della difesa, sotto l’attento sguardo del procuratore capo di Torino, Armando Spataro. Tralascio le argomentazioni, capi d’accusa e prove a difesa, per non ripetere quanto scritto da molti giornalisti su testate nazionali, accorsi al processo del secolo. Non posso, tuttavia, non soffermarmi sul riferimento al liceo francese.



Ad un certo punto Ichino si è chiesto come mai non esista negli altri paesi un equivalente del liceo classico: Francia e Germania lo hanno abolito e reagiscono alla crisi meglio di noi; inoltre — ha continuato l’economista — quale sarebbe il senso di imporre a un ragazzo di 14 anni un menù fisso di materie obbligatorie, mentre potrebbe scegliere  le materie da frequentare: basti guardare all’esempio della Boston Latin School.

Ricordiamo però al professor Ichino, che con la massima sicurtà di economia avrà maggior contezza dello scrivente, che nel Regno Unito è da anni attivo un programma, Iris Project, per insegnare cultura classica e rudimenti delle lingue classiche… persino nelle scuole elementari dei quartieri più a rischio!



Ma non sta qui il punto. Infatti è arrivata come Parmenide sul cocchio verso la Dea Verità l’entrata “farsesca” di Eco il quale ha erudito il pubblico di questo fatto famigliare: un suo nipote, a Roma, è iscritto a un liceo francese: qui — apprendono gli studenti torinesi frequentanti scuole italiane sul suolo patrio (siano esse statali, siano esse paritarie, ma sempre italiane!) — il nipote ha potuto scegliere tra molte materie opzionali e ha scelto il greco antico: infatti, non ama la grammatica ma il modo didattico del suo professore gli piace, rendendogli meno amare, come il miele per l’egro lucreziano, i misteri dell’aoristo.

Il discorso su vizi e virtù del liceo classico ha toccato la sua apoteosi nella disamina del rapporto tra istruzione classica e formazione delle élites della classe dirigente in Italia.

Il liceo classico non è stato sempre la fucina delle menti dell’Italia, non solo in campo politico, ma anche economico? Sarebbero venute subito in mente le icastiche riflessioni  di un intellettuale “onesto” come Ernesto Galli della Loggia a chi avesse a cuore — per così dire — la sorte del nostro povero Paese,  della “serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!”. Egli scrisse in un bellissimo editoriale sul Corriere della Sera (9 ottobre 2010): “Nella crisi italiana non c’ è solo l’economia. Qua e là affiorano sintomi di altra natura che hanno un significato forse ancora più grave: sintomi di un domani alle porte nel quale ad essere colpiti finiranno per essere la nostra stessa identità collettiva, il senso del nostro stare insieme come Paese. Tra questi uno mi appare più inquietante degli altri: da qualche tempo le élites italiane non mandano più i figli alle scuole italiane. Non sto dicendo che non li mandano più nelle scuole pubbliche, preferendo quelle private. Accade massicciamente anche questo, ma ormai accade che non li mandino più nelle scuole in cui comunque si parla italiano e dove s’impartiscono programmi italiani. Perlomeno nelle grandi città un numero sempre maggiore di persone agiate sceglie per i propri figli scuole francesi, tedesche, o perlopiù anglo-americane. (…) Ma tutto ciò non può impedire di vedere che dietro la diserzione dei giovani figli delle élites dalla scuola del proprio Paese c’ è ben altro; e non certo il desiderio di imparare bene una lingua straniera. C’è in generale il progressivo, profondo, sentimento di dissociazione psicologica e spirituale degli italiani dalla dimensione della collettività nazionale. Che si esprime soprattutto nella convinzione che per la propria identità, per il proprio modo di essere e di sentire, per ciò che si è, e dunque per quella dei propri discendenti, la storia, la letteratura, l’ arte italiane — per l’ appunto ciò che si apprende (o si apprendeva) nella scuola — non hanno più alcun valore particolare. Questa repulsa del nostro passato esprime la convinzione che ormai questo Paese come tale non ha più alcun futuro: intendo un futuro in qualche modo specificamente suo, che porti impressi le caratteristiche, le vocazioni, la storia, il genio, suoi propri, se così posso dire”.

A cosa serve dunque il liceo classico? A nulla. 

Se serve a creare un pochino di quel che dice l’editorialista il liceo classico è utilissimo. Anche se con l’accenno al nipote — il quale è liberissimo di frequentare la scuola che più gli aggrada —  Umberto Eco viene chiamato (anche) dal Miur a dare indiretta conferma di quanto rilevato da Galli Della Loggia: che credibilità ha una difesa come quella offerta da Eco, al di là dell’apparato verbale-concettuale che pare essersi dissolto come Nuvole (titolo della commedia di Aristofane) di fronte alla luce ardente del nipote di Eco che al liceo classico, scuola della Repubblica, non ci è andato?

Il commento più azzeccato, a modesto parere dello scrivente,  per questa tipologia di pubblico processo al liceo classico è stato dato da una studentessa presente che ha detto: “È un processo assurdo in cui ci troviamo costretti a difenderci”.

Iniziamo a difenderci, dunque, da profeti che in patria avrebbero bisogno di un paio di occhiali per vedere la realtà della scuola italiana, a cominciare dal liceo classico: a cominciare da chi ha un nipote che appartiene agli “espatriati dalla scuola”.