Tra le molteplici indicazioni del 48° Rapporto del Censis relative al cosiddetto “capitale inagito” (una ricchezza sepolta per il timore di un futuro peggiore del presente) colpiscono alcuni dati relativi alla realtà del mondo scolastico e della formazione. Il primo riguarda il fenomeno della overeducation: più di 4 milioni di lavoratori ricoprono posizioni per le quali sarebbe sufficiente un titolo di studio inferiore a quello posseduto. Un laureato su due in economia, ad esempio, è sottoinquadrato così come un ingegnere su tre e due laureati su cinque nell’ambito delle scienze sociali e umanistiche. 



Non è perciò del tutto sorprendente che soltanto il 51% degli italiani consideri una buona istruzione tra i fattori decisivi per farsi strada nella vita (in Germania l’82%). Dati che convergono con quelli che segnalano un vistoso calo di iscritti all’università: in appena tre anni, si sono persi circa 30mila nuovi iscritti negli atenei italiani e in poco meno di 10 anni addirittura più di 70mila. Nel 1988/1989 gli immatricolati erano 276.249, quest’anno sono appena 267.076. Si direbbe che stia lentamente facendosi strada la convinzione che “studiare non serve”. 



Per restare alla metafore delle giare, oltre alle sette indicate dal Rapporto (i poteri sovranazionali, la politica nazionale, le sedi istituzionali, le minoranze vitali, la gente del quotidiano, il sommerso, il mondo della comunicazione) se ne potrebbe aggiungere un’ottava: una massa di giovani che frequentano corsi secondari (oltre il 90%) e sono iscritti all’università che — secondo il linguaggio degli economisti — non riescono a diventare risorse utili al paese, finendo col costituire un peso per le famiglie, un motivo di frustrazione personale, uno spreco di talenti. 

Non intendo inoltrarmi nell’analisi delle ragioni che stanno portando l’Italia fuori delle nazioni più avanzate sul piano dell’istruzione e della formazione. Sono largamente note: un’insistita (e anche ragionevole, beninteso) preoccupazione perché “nessuno resti indietro” non adeguatamente compensata, tuttavia, dall’esigenza di salvaguardare una dignitosa qualità della preparazione; la convinzione che la valutazione degli apprendimenti debba tradursi per lo più in forme di monitoraggio permanente piuttosto che in atti che incidano sulla carriera dello studente (per molto tempo il verbo “bocciare” è stato ritenuto politicamente poco corretto); l’idea che la scuola sia un ammortizzatore sociale e cioè un’occasione per sistemare laureati che non saprebbero come trovare altrimenti lavoro; un insufficiente rapporto con il mondo del lavoro con una sorta di diffusa e strisciante licealizzazione; la convinzione che la laurea triennale possa rappresentare il momento culminante della “scuola di massa” (tesi clamorosamente smentita dai dati che indicano proprio in questo livello di studi la perdita di circa un terzo degli iscritti in meno di un decennio). 



La scarsa credibilità della scuola e della formazione da essa assicurata può essere indagata anche attraverso altre vie, oltre a quelle socio-politiche: per esempio osservando la diffusa opinione che alla scuola non competano compiti “educativi” se non in misura molto soft e che l'”educazione” sia un surplus — magari anche apprezzabile — che spetta alla famiglia la quale però, spesse volte, sarebbe lietissima di delegarla agli insegnanti. 

Per timore di violare l’autonomia dei singoli, per un malinteso senso dell’autorità concepita come intromissione nella vita altrui (e non come l’autorevolezza di chi, in quanto più esperto, può aiutare a crescere) e per una diffusa indifferenza — nella quale non e difficile intravedere qualche traccia nichilista — accade così che l’opinione pubblica si interroghi sull’educazione soltanto in occasione di fatti di cronaca particolarmente drammatici quando tutti si chiedono allarmati “dov’erano gli educatori”. 

Ma la scuola deve per forza “servire” a qualcosa? Mi chiedo se non sia giunto il momento di ribaltare il nostro modo di ragionare. Perché non sostituire all’immagine del bancomat — la scuola come erogatrice di qualcosa che deve “praticamente servire” centrata sull’ossessione della certificazione delle competenze — l’immagine, invece, di una offerta gratuita che rende praticabili esperienze che non sarebbero possibili altrove, per scoprire capacità nascoste, imparare cose nuove, oltrepassare la socializzazione anonima di Internet, incontrare persone che ci accompagnano per un tratto di strada durante il quale diventiamo diversi da come eravamo all’inizio del cammino? 

E allora vale la pena cominciare a centrare la ricchezza della scuola sulle sue dimensioni anche e forse soprattutto “immateriali” come luogo nel quale sono depositate risorse diverse che — come scrive Andrea Bajani nel piccolo e utile libretto polemicamente intitolato proprio La scuola non serve a niente — possono consentire di “fare uscire i ragazzi dalla scuola con la capacità di immaginare un mondo diverso da quello consegnato loro e non solo bravi a inserirsi dentro caselle già disegnate”. 

Se proprio vogliamo ancora pensare a una scuola che, a tutti i costi, deve servire a qualcosa possiamo pensare che sia capace di liberarsi e liberarci dall’illusione che gli strumenti info-telematici ci assicurino la felicità. Non per negare queste realtà, ma per “andare oltre” e aiutare gli allievi a riflettere e ragionare con la propria testa, a fargli scoprire la bellezza, a fargli sperimentare che qualcuno di occupa di loro.