Lo strumento Eduscopio, lanciato dalla Fondazione Agnelli nei giorni scorsi, consiste in un sito web molto ben disegnato che fa, egregiamente, ciò che promette: fornisce un’informazione sui risultati ottenuti, dai diplomati di una certa scuola secondaria, durante il primo anno di università. Tale informazione, in particolare, riguarda il numero di esami superati (tecnicamente, il numero di crediti formativi acquisiti) e il voto medio riportato in tali esami. I dati sono articolati per scuola, cosicché è possibile “scorrere” una sorta di “graduatoria” di scuole, concentrando l’analisi su determinate aree geografiche. 



Ovviamente, lo strumento ha fatto molto parlare di sé, e ha generato due conseguenze che, si può immaginare, sono i veri obiettivi dei promotori dell’iniziativa. La prima conseguenza è che molti docenti hanno cominciato a preoccuparsi del fatto che qualcuno renda pubblici (e facilmente accessibili) dati che possano essere utilizzati a fini valutativi. L’equazione è semplice: le scuole i cui diplomati ottengono voti migliori all’università, sono le migliori. La seconda conseguenza è che le famiglie sono consigliate di utilizzare il sito per prendere le proprie decisioni sulla scuola da frequentare: se una scuola è migliore (vedi sopra), se voglio il meglio per mio figlio debbo iscriverlo in quella. Nessuno formula esplicitamente queste due tesi di fondo, eppure risulta evidente come il sito, e l’iniziativa tutta, siano intrise di questa prospettiva. Come cercherò di argomentare, essa è molto pericolosa, oltre che discutibile. 



A mio parere, l’iniziativa Eduscopio soffre di tre problemi tecnici rilevanti, oltre che di un problema concettuale generale. 

Il primo problema è che l’istruzione tecnica viene del tutto assimilata a quella liceale; in altre parole, se un diplomato non va all’università la scuola vede penalizzato il suo “punteggio”. Se si assume che, almeno in parte, scopo dell’istruzione tecnica sia formare ad un inserimento diretto nel mondo del lavoro, è chiaro che l’immagine risultante da una valutazione basata su performance universitarie sarebbe per definizione distorta. 



Il secondo problema sta in questo: è verosimile pensare che gli studenti si auto-selezionino nelle scuole secondarie. In questo senso, una scuola risulterebbe “migliore” in parte perché gli studenti che l’hanno frequentata erano migliori, indipendentemente dall’azione della scuola stessa. Ad esempio, se la platea studentesca di una certa scuola fosse composta prevalentemente da figli di genitori laureati, si potrebbe dimostrare che questi diplomati andrebbero comunque meglio all’università indipendentemente dall’azione della scuola. La “classifica” di Fondazione Agnelli non fa nessuno sforzo per provare a distinguere questo possibile effetto di auto-selezione.

Infine, l’esercizio informativo svolto in Eduscopio assume che i risultati di una specifica coorte di studenti possano essere considerati come una misura dei risultati della scuola nel futuro. La letteratura statistica ha, invece, da tempo dimostrato che le valutazioni delle scuole sono molto instabili da un anno all’altro, e questo è particolarmente vero quando il giudizio si basa su coorti di studenti diverse; come in questo caso, in cui l’indice di valutazione della Fondazione si basa su una singola coorte di diplomati. 

Si tenga in considerazione, a tal proposito, che un/a ragazzo/a dovrebbe assumere decisioni sulla scuola da frequentare sulla base di risultati all’università che dovrebbero replicarsi, nel proprio caso, dopo almeno cinque anni di studi. La “stabilità” degli eventuali effetti di scuola sarebbero, quantomeno, fortemente discutibili in un arco di tempo così lungo!  

L’errore concettuale principale di Eduscopio, comunque, è la promozione di una visione della scelta della scuola basata solo sui risultati cosiddetti “a distanza”. Mentre tali informazioni sono senza dubbio importanti, immaginare che un/a ragazzo/a di quattordici anni assuma le decisioni solo sulla base della probabilità di andare bene all’università cinque anni dopo è non solo eccessivamente razionalistico, ma svilente. Sarebbe bene che si promuovesse una visione della scelta educativa che non si basi solo sul “successo” più avanti nel tempo, ma sulla bellezza ed intensità dell’esperienza di vita e di scuola durante gli anni dedicati allo studio. 

In questa prospettiva, si potrebbero fornire molti più dati, di diverso tipo, sulle scuole superiori: quale obiettivo educativo perseguono, quanti e quali docenti vi insegnano, quali attività extra curriculari le scuole svolgono, come sono stati i voti di diploma — e i punteggi nelle prove invalsi — negli anni, eccetera. 

Insomma, sarebbe bello dare a ciascuno studente uno spettro il più ampio possibile di informazioni, qualitative e quantitative, sui tanti aspetti che un/a ragazzo/a di quindici anni (e la sua famiglia) sono interessati ad approfondire. La cultura del dato e della valutazione deve ripartire proprio da qui: dall’idea che l’informazione quantitativa è fondamentale e deve essere al centro del patrimonio informativo, ma non deve arrendersi a misurare pochi e parziali fenomeni. Su questa sfida, il ministero dell’Istruzione ha l’obbligo di provare a rilanciare la propria attività, coinvolgendo le scuole e professionalità esterne per migliorare il proprio strumento informativo (Scuola in Chiaro) per renderlo il più completo e fruibile possibile da parte dei ragazzi e delle famiglie.

Le informazioni ben elaborate da Fondazione Agnelli sono dunque preziose, ma la loro rilevanza va decisamente ridimensionata e contestualizzata all’interno del più complesso, ed importante, processo di valutazione ed analisi delle attività e dei risultati delle scuole. Tale sfida deve uscire dal solo “circolo degli esperti” e diventare patrimonio di discussione e formazione per la scuola tutta: dirigenti scolastici, insegnanti, genitori e ragazzi.