Ultimo giorno di scuola prima della pausa natalizia. Lezione alle prime due ore, poi festa di istituto: se devo essere onesto, non mi piacciono queste giornate. Il ritmo è modificato, gli studenti sono irrequieti; di prima mattina, mi incammino verso la scuola con la consapevolezza che non riuscirò mai a fare tutto quello che dovrei. 



Prima di tutto, ci sono gli ultimi studenti da interrogare, quelli che, per un motivo o l’altro, l’hanno fatta franca giocandosi tutte le carte, lecite e illecite, fino al 23; ci sono poi le verifiche, corrette la sera prima lanciando il cuore oltre il trentesimo tema, da consegnare, con le conseguenze del caso: chi si troverà con una media incerta vorrà implorare l’ultima domanda, l’ultimo voto. 



Non è facile fare lezione, in giorni come questo: a volte ti ritrovi in una classe casinista, e non puoi fare altro che portare a casa il risultato: assegni i compiti, spieghi due cose, e buonanotte. Altre volte la classe è disciplinata, vorresti approfittarne per dire qualcosa di significativo, sul senso del riposo, sulla necessità del ripasso, o qualcosa di più ampio, magari sul futuro, o sul Natale oggi… Ma le parole, quando le pronunci, suonano leggermente diverse da come te le eri immaginate, stonate, e anche questo alimenta una sensazione di lieve amarezza.

È questo, inoltre, il giorno delle visite degli ex studenti che hanno iniziato l’università. Anche in questo caso, so che le cose non sono facili come sembrano: bussano alla porta, “Avanti!” rispondo, interrompendo la lezione, o, all’opposto, cercando di superare con la voce il caos che regna nell’aula. Entrano, a volte da soli, a volte in due o tre, ragazzi che, pochi mesi fa, sedevano in quelle stesse aule. Ti ricordi i loro nomi, passi in rassegna le facce di quella classe che è andata avanti, nel ciclo uguale a se stesso dei quinquenni. Chiedi come sta andando, la risposta è quasi sempre la stessa, sono ragazzi bravi, se la cavano tutti, bene o male, o così ti dicono! Una stretta di mano, un sorriso, e la parte più bella se ne è andata. Arrivano le domande di rito, sono ancora adolescenti, rispondono in poche sillabe, e poi cala quel silenzio imbarazzato, ma così denso di significati: eh già, cari Giulia, Anna, Federico, è così per tutto! Non fate più parte di questo mondo, e vi sentite un po’ fuori posto. Non preoccupatevi, è normale.



Da parte mia, avrei ancora, forse, le parole giuste da dire, i ricordi adatti da riportare in superficie, ma di nuovo la frase resta strozzata in gola, mi rendo conto che se parlassi di quella famosa interrogazione, o di quell’episodio durante il viaggio a Berlino, non sarebbe più la stessa cosa. Aveva senso finché eravamo lì, finché ero il vostro professore, e voi i miei studenti. Li saluto, forse troncando la conversazione che già langue, e li vedo scendere le scale. Un’altra fine si consuma, in nome di inizi che non ci appartengono più. 

Trovo, in sala docenti, un collega fregato dalla riforma Fornero. “Sai”, mormora mentre mastica un pezzo di pandoro, “ho fatto domanda, chissà che sia la volta buona!” Speriamo. In particolar modo lo sperano i precari che faticano a prendere confidenza con i colleghi più anziani, tra i quali figuro pure io. Quando ho passato il segno? Saluto Pietro, supplente di lettere. È passato al Tfa, ha uno spezzone di poche ore da noi, e una fidanzata disoccupata. Hanno tutti e due 26 anni. Se va bene, mi dice tra gli auguri e le strette di mano, la speranza è di iniziare a prendere supplenze annuali, così da potersi sposare. “Il mutuo?”, mi fa, mentre già mi mordo la lingua, per la domanda inopportuna, “No, figurati, per quello c’è tempo… Intanto in affitto, poi si vedrà”.

L’ultimo giorno di scuola è diverso anche per questo: tra noi insegnanti non siamo abituati a socializzazioni così prolungate: viviamo il pieno della nostra giornata lavorativa in aula, con i ragazzi. Con i colleghi in realtà ti incroci nei corridoi, scambi due parole durante le ricreazioni, sempre che tu non debba fare fotocopie, compilare registri, ricevere genitori fuori orario, sorvegliare cortili. Oggi invece siamo tutti assieme, e si vede che non siamo così abituati. Ti sfila a fianco un collega, di fretta: “Ci facciamo gli auguri dopo?” sorride, scomparendo fuori dalla porta. “Sì sì, dopo”, menti anche tu. Difficile salutare tutti: arrivato a casa, mi verrà in mente che non sono riuscito a fare gli auguri a più di qualcuno. Spero non se la prendano.

In fin dei conti, con il frastuono delle casse giù in cortile che mandano musica da discoteca e la testa pesante per il bicchiere di prosecco a stomaco vuoto, mi rendo conto di quanto queste giornate, apparentemente così diverse dalla nostra quotidianità, siano, forse, paradigmatiche.

L’insegnamento è, prima di ogni altra cosa, complesso: tante sono le dimensioni da tenere insieme in ogni istante, dalla progettualità alla relazione, dalla burocrazia alla pedagogia; non so se sia possibile per altre professioni, di certo credo che un insegnante abbia sempre, di fronte a sé, la consapevolezza della sua insufficienza, proprio perché diverse tra loro sono le competenze richieste ai docenti, talvolta tra loro antitetiche, forse impossibili da attuare all’interno di una stessa ora di lezione.

Complesso perché, nostra benedizione e nostra condanna, dobbiamo entrare ogni anno in aule diverse, tessere rapporti con classi nuove, raccogliere sfide, supportare problemi, stimolare eccellenze. I più esperti conoscono le tecniche, sanno intuire alcuni schemi che possono ripetersi, in certi casi giocano di mestiere. Ma non è mai la stessa cosa, e l’imprevisto, l’incidente, è sempre dietro l’angolo, e tutti, alla fine, abbiamo comunque il fiatone. 

Penso a Giano, il dio bifronte delle ianua, delle porte, vecchio sul lato di dicembre, giovane sul lato di ianuarius, appunto il suo mese. Cose delicate i passaggi, i confini, le discontinuità, e gli antichi lo sapevano, se vi hanno addirittura preposto un dio! Ecco, Giano, in tutto il pantheon degli dei falsi e bugiardi, è il più indicato a proteggere la scuola: siamo un mondo sospeso nel dialogo tra tradizione e innovazione; basiamo la nostra quotidianità sul confronto tra vecchie e nuove generazioni; nutriamo la nostra professionalità di compiti distanti, divaricati; cerchiamo di governare, come i contadini sul campo (se tra cultura e coltura c’è affinità semantica, un motivo ci sarà!), la crescita dei nostri ragazzi. 

Ho sottoposto ad alcuni studenti questa intuizione. Uno di loro, dopo averci pensato su, sorridendo mi ha educatamente fatto presente come, a fronte della grande complessità della scuola, piuttosto che il semplice Giano bifronte sarebbe il caso di valutare, in qualità di nostro tutore, il Lucifero dantesco dai tre volti. Punti di vista!