Quando nel 1999 il ministro Berlinguer cercò di varare una differenziazione di carriera degli insegnanti con il Concorsone — avendo peraltro acquisito anche il consenso della Cgil dell’epoca — aveva alle spalle almeno 10 anni di elaborazioni, dibattiti e proposte. Dopo quasi 25 anni siamo dunque tornati, in uno di quei giochi dell’oca in cui il nostro paese è specialista, al punto di partenza.



La  proposta avanzata in proposito nella Buona Scuola è stata bocciata e lodevolmente i proponenti l’hanno archiviata per tornare ad una casella iniziale che sembra assomigliare molto — lo ha ricordato il Corriere della Sera — alla proposta di legge Aprea che aveva raccolto consensi anche nelle parti avverse e che finì male per cause non legate alla qualità della proposta. A proposito della Buona Scuola, si è molto puntata l’attenzione sulla sconcertante previsione di migrazioni (ulteriori!) di insegnanti da una scuola ad una peggiore per avere il bonus previsto. Ma gli aspetti sostanziali erano altri: la certezza di una guerra civile permanente nelle scuole senza risultati significativi, perché il bonus non consolidava nessuna professionalità di cui la scuola ha bisogno. Non sono mancate peraltro curiosità, come la richiesta di levare il tetto del 66% dei potenziali premiati: la scuola sembra proprio un mondo dove il principio di realtà non ha corso!



Si dice che ora l’aria nelle scuole sarebbe cambiata ed attaccato alla sola anzianità come criterio di progressione economica sarebbe rimasto solo il 20% degli insegnanti. Ma c’è chi pensa che anche nel recente passato la situazione non sia stata molto diversa. Non è che, come nel caso delle prove Invalsi, pochi riescono a sollevare un gran polverone? Nell’opposizione ormai più che decennale ad ogni seria articolazione della carriera, la minoranza attiva si è trascinata dietro per inerzia il ventre molle della categoria, ma soprattutto è riuscita a fare tacere i favorevoli che poi erano, guarda caso, quelli che già sgobbavano gratis nelle scuole, ma che non hanno mai avuto il coraggio di fare sentire la loro voce e di far valere il loro diritto di essere riconosciuti per quel che facevano. Una generazione di quadri intermedi bruciata, che è andata in pensione amareggiata e senza riconoscimenti.  



Come sempre, gli interessi materiali — in questo caso alla conservazione — hanno bisogno di “ideologie” di copertura. Non bastano sindacati con il baricentro in basso e politici opportunisti. Senza smantellarle non si cambia.

L’establishment buropedagogico anche in questo caso ha dato il suo contributo. La pedagogia italiana ha elaborato in questi decenni un mito: quello della scuola — soprattutto la primaria e quella dell’infanzia — come mondo a parte. Un mondo irenico, dove la conflittualità è rimossa e trionfa, deve trionfare la benevolenza, la  pacificazione reciproca, la collaborazione, la condivisione (la fortuna recente e dilagante di questo termine è un buon indicatore del fenomeno).

Fa parte del quadro l’assoluta eguaglianza fra gli insegnanti: ogni differenziazione comporterebbe gerarchizzazione e conflittualità. Il che turberebbe l’idillio sociale ed impedirebbe il passaggio del  messaggio pedagogico di cui sopra. Tutte pie illusioni: la naturale conflittualità umana rimossa e non riconosciuta e trattata non evapora, ma tende a divenire purulenta. 

Ma una seconda ragione sta nelle caratteristiche psico-sociologiche dell’insegnante che hanno permesso il radicarsi di questo messaggio. Come ogni professione, quella dell’insegnante ha i suoi pregi ed i suoi difetti. Difetti: stipendio medio-basso (ma sicuro), limitato prestigio sociale (ma non dappertutto). Pregi: possibilità di autorealizzazione come persone colte, consulenti e/o educatori ed ambiente poco apertamente conflittuale. Non tutti hanno voglia o piacere di scendere tutte le mattine per le strade con il coltello fra i denti.

Perciò fino ad oggi il combinato disposto di questi due fattori ha bloccato tutto. Ed abbiamo assistito ad un gioco curioso.

Ci sono due modi per movimentare la situazione. Il primo è quello di attribuire “premi” a chi fa bene il mestiere. In generale nei vecchi sistemi qualcuno sovraordinato (preside? ispettore?) decide in proposito. Lo sviluppo delle valutazioni esterne ha messo in auge l’utilizzo dei risultati degli allievi soprattutto in termini di valore aggiunto; ma sembra che sul caso del singolo insegnante sia tutt’altro che facile misurarlo. E poi si può pensare nel nostro paese di “invalsizzare” tutto lo scibile umano? O di premiare solo gli italianisti ed i matematici? Il progetto sperimentale “Valorizza” aveva tentato anche la strada della reputazione; ma in un paese come questo, che riempie in ogni modo le aule dei tribunali ed in cui a priori viene negata l’autorevolezza nel giudizio valutativo ai superiori per non dire ai pari, si tratta davvero di strade percorribili?

Rimane allora l’altra strada: differenziare e costruire carriere su cose tangibili: ore di lavoro, funzioni aggiuntive, non inventando peraltro nulla, ma semplicemente consolidando quello che già esiste. Consolidando davvero però; i cultori della materia ricorderanno la battaglia che più di dieci anni fa si svolse sul Fondo di istituto: chi lo doveva prendere, le figure o le funzioni? Le parole sono pietre: lo presero, grazie all’inventiva filologia sindacale, le funzioni che, come dice il termine, prescindono da chi le svolge che può, anzi deve ruotare, in modo tale che sia assicurata la perfetta eguaglianza.

Un gioco curioso si diceva: tutte le volte che sembrava prendersi con serietà la seconda strada —probabilmente l’unica percorribile — saltava su qualcuno che in perfetta buona fede e con le migliori intenzioni, ricordando il bravo insegnante del proprio liceo classico di 50 anni fa, si scandalizzava che il criterio con cui distribuire premi e prestigio non fosse quello di “ciò che si fa in classe”. E si tornava alla casella iniziale. I soldi, si sa, non erano mai abbastanza e come riservarli a pochi privilegiati, mentre la massa si proletarizzava? E questo era il ruolo dei sindacati.  

Una lunga storia dolorosa, ma che rischia di diventare quasi amaramente divertente per chi almeno se la ricorda. 

Storia rievocata dal Convegno Adi “Insegnanti: stessa musica o si cambia?” tenutosi recentemente a Bologna in cui, assieme all’ennesima richiesta di un nuovo stato giuridico degli insegnanti che svincoli dalla contrattazione sindacale le regole della professione, è stata ribadita la proposta di una carriera degli insegnanti che aiuti il buon funzionamento della scuola italiana. 

La strada proposta alla presentazione della Buona Scuola sembra andare in questo senso ed essere l’unica ragionevole e realizzabile: creazione di un middle management con due tipi di funzioni, organizzative e di guida didattica. Il “buon insegnante” dovrebbe trovare posto in questa ultima ed il fatto di essere preposto alla formazione dei giovani ed alla consulenza per l’insegnamento potrebbe rendere utile il riconoscimento alla scuola ed anche smorzare le inevitabili ostilità dei colleghi. Anche perché le vocazioni e gli stili di vita in una massa così ampia sono diversi: c’è chi ha interesse ed energie da dedicare ad altre attività per la scuola e chi preferisce utilizzare in altro modo le forze che gli rimangono una volta uscito di classe. Anche questa una constatazione oramai di lungo corso.