Caro direttore,
da insegnante ho letto con comprensibile interesse nei giorni scorsi, sul sito Eduscopio della Fondazione Giovanni Agnelli, le “classifiche” degli istituti superiori della mia provincia, Pordenone, e del vicino Veneto. Emergono dagli esiti ottenuti dai diplomati delle varie scuole d’Italia nel primo anno di università, per esami superati e voto medio riportato negli stessi: tutti raffrontati esclusivamente all’interno di uno stesso indirizzo liceale, classico o scientifico o linguistico o di scienze umane; o di una stessa tipologia di istituto tecnico. 



Dopo aver constatato con soddisfazione il buon livello ottenuto dal mio liceo statale, ho letto sul suo giornale alcune riserve e critiche alle graduatorie FGA: riserve che non condivido, a cominciare da quelle del preside Gianni Zen che cita don Milani: “se si perde loro [i ragazzi difficili] la scuola non è più scuola. E’ un ospedale che cura i sani e respinge i malati”. 



A parte il fatto che, con tutto il rispetto per don Milani, paragonare un ospedale a una scuola mi fa rabbrividire, oggi non siamo più ai tempi di quei ragazzi a rischio di emarginazione: c’è una varietà di opzioni scolastiche sin dal biennio superiore — a mio avviso anche eccessiva — grazie alla quale uno studente può scegliere nell’ambito dei percorsi liceale, tecnico e professionale ciò che più gli aggrada, anche in base al carico di studio teorico che è disposto a sopportare. Purtroppo però questa prima, sacrosanta selezione da operare, è spesso vanificata nei fatti: perché, come Zen giustamente ricorda, in Italia le famiglie possono scegliere la scuola superiore dei figli ignorando gli esiti riportati dagli stessi nei precedenti anni scolastici. Se poi il titolo “liceo scientifico” suona bene, a tutti i costi quello, per i loro rampolli, dev’essere. 



E nessuno mi venga a dire che è ovvio, che bisogna aiutare il discente dopo che ha compiuto una scelta adeguata: perché spesso quella scelta non c’è stata. In altre parole, l’orientamento — lo ripeto, la prima sacrosanta selezione — è stato sacrificato alla logica scolastico-burocratica del boom di iscritti che va a braccetto con quella di non poche famiglie per le quali il liceo, quando non addirittura una laurea conseguita in certe università, divengono uno status symbol.

A fronte di ciò, poco può fare un preside ridotto a manager o, come ironicamente annota Giorgio Israel, plasmato dal ruolo istituzionale di rispondere alla “customer satisfaction”: così talvolta si mescola il vero obiettivo, l’en plein di iscritti, alla carità pelosa dell’accoglienza a tutti i costi.

Tornando a Zen, accogliere e aiutare si deve, ma solo dopo aver richiamato i primi attori sulla scena — famiglie e studenti — a una minima iniziale assunzione di responsabilità. Avvenuto ciò, la palla torna alla scuola: e allora via libera all’aiuto, all’incoraggiamento, al favorire ogni possibile maturazione, personale e cognitiva, nello studente.

Forse per questi motivi, cercando invano ai piani alti delle classifiche FGA anche qualche scuola cattolica del mio angolo di Triveneto, le ho viste quasi tutte in fondo, peraltro accanto a non poche statali. Né mancano gloriose eccezioni: a Vittorio Veneto il liceo linguistico “Santa Giovanna d’Arco” e, in pole position nelle classifiche nazionali, l’istituto don Carlo Gnocchi di Carate Brianza e il Sacro Cuore di Milano che si ispirano a Cl. Ma  non penso che ciò sia avvenuto grazie al carisma di don Giussani anche se, nell’intervista al sussidiario, il rettore del don Gnocchi insisteva sulla comune adesione al progetto del sacerdote lombardo. Rimango dell’idea che carisma e fede debbano sì illuminare l’accidentato sentiero dell’impegno, del merito e del duro lavoro di studenti e insegnanti, ma senza poter in alcun modo sostituire le responsabilità, talvolta dure, cui ciascuno è chiamato. E’ questo l’unico “valore aggiunto” che sono disposta a riconoscere alla scuola. E credetemi, non c’entra nulla con le logiche darwiniane e con la iper-selettività paventate da Zen. E’ solo la scuola che vorrei: palestra di vita, non limbo per futuri disadattati, non specchio della crisi che corrode il Paese.