La rivoluzione di Renzi non è abbastanza rivoluzionaria. Invoca strategie, ma vive di tattica, compresa la salomonica conclusione “deciderà il Parlamento”, sapendo che oggi non è certo il Parlamento il cuore decisionale del nostro Paese.

Se mettiamo a confronto le mille dichiarazioni degli ultimi due anni, con il riscontro finale sulla “Buona Scuola” ed alcuni provvedimenti, come la polemica di queste ore tra il sen. Ichino ed i ministri Madia e Poletti sull’applicazione ai dipendenti pubblici del Jobs Act, il quadro che ne esce non è tra i più incoraggianti.



Invece di partire, per quanto riguarda il mondo della formazione, dall’assioma “un giovane ben formato è una risorsa in più”, si preferiscono continui effetti-annuncio, quasi a coprire difficoltà oggettive ma anche proprie incapacità di unire i due valori-base di una politica con la P maiuscola: sapere la verità sullo stato del proprio Paese e decisioni eque secondo un’etica delle responsabilità.



Partire, dunque, da quell’assioma per ridisegnare un “servizio pubblico” che sia capace di garantire, pur nella problematicità dei processi, quel “risultato”. Oltre le cortine di ferro ideologiche, contrattuali, comportamentali.

Dunque, in gioco è la qualità di questo particolare “servizio pubblico”, il quale, in senso più generale, deve partire comunque dalla pari dignità di tutti i lavoratori, senza più arcaiche differenze tra lavoro pubblico e lavoro privato.

Poi, all’interno del lavoro pubblico, fatto salvo il principio costituzionale dell’assunzione con concorso pubblico, devono valere le stesse regole, secondo — appunto — pari dignità, perché concorso non significa inamovibilità, cioè intoccabilità.



Il che significa che il concorso, ad esempio dei docenti, non deve significare “ruolo a vita”, ma via privilegiata, perché “meritata”, per un contratto che garantirà un lavoro a vita se una persona, però, si “meriterà” questa fiducia. Non a prescindere.

Nel mondo della scuola questo è il vero vulnus, mai portato allo scoperto. Basta chiedere ai presidi, durante l’estate, cioè nei momenti di costruzione delle “cattedre” per i docenti: da un lato spalmare i docenti in difficoltà su più classi, dall’altro chiedere a quelli in gamba di sanare le situazioni critiche. Con tutti lo stesso stipendio. Ma questo vale anche per i presidi, come per tutto il personale Ata: la struttura contrattuale non può più prescindere dalle persone che sono chiamate a ricoprire ruoli e responsabilità.

Del resto, lo sappiamo, sotto contratto non sono le persone, ma le loro competenze, la loro disponibilità, la loro passione e dedizione.

In un tempo di “vacche magre”, di disconoscimento del valore e del merito, con un blocco contrattuale che sta penalizzando centinaia di migliaia di persone in gamba (la stragrande maggioranza dei docenti), cogliere la palla al balzo della equità dei lavoratori, pubblici e privati, è il volano che può ridisegnare e ripensare la domanda di qualità del servizio docente, come il servizio di coordinamento dei presidi e di ausilio e supporto del personale non-docente. Quando i sindacati, finalmente liberi da ruoli da “surrogato politico”, inizieranno a ripensare a come rimuovere questo vulnus?

“L’umanità è molto vecchia, l’eredità, gli incroci hanno dato una forza insuperabile alle cattive abitudini, ai riflessi viziosi”, ammonisce Proust ne La prigioniera.

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