“Perché occupiamo?”. La nuova riforma, la mancanza di fondi, la scuola che cade a pezzi, il diritto allo studio. E poi la risposta reale: “Pe’ nudd” (per niente). 

Bari, 1° dicembre, ore 21.30: WhatsApp e Facebook in delirio al grido di “Socrate occupato!”. È partito il mese di fuoco delle occupazioni, che travolgono in un effetto domino una scuola dopo l’altra (tra Bari e provincia finora nove istituti). Questa volta il pretesto è la riforma della “Buona Scuola” proposta dal governo. Ciò che non cambia, invece, è la dinamica dei fatti: leggiamo, discutiamo… non va bene, occupiamo! Anche se i passaggi intermedi — “discutiamo”, “non va bene” — sono pura formalità. 



Così “nel mezzo del cammin di nostra vita” ci ritrovammo nella bolgia studentesca  tra ignavi neutrali e indifferenti, iracondi smaniosi di rivoluzione, accidiosi alla pigra ricerca di giustificazioni per la loro inerzia. E poi ci siamo noi, che come Dante vogliamo il Paradiso. Come Claudio, che ci ha raccontato del suo tentativo di “contro-occupazione”, nella speranza di poter studiare fuori dalla scuola occupata: “Ma mi sono trovato praticamente da solo”, con l’amara consapevolezza che “si lotta per il diritto allo studio quando questo viene negato a me studente, che non posso partecipare alle lezioni”. Perché questa è la situazione di chi prova a pensarla diversamente: quella di un viaggiatore che scende dal suo treno ed è travolto dalla folla di passeggeri diretti nel senso opposto, senza che nessuno lo noti mentre chiede “permesso?”. 



L’occupazione, oltre che mettere le catene alla scuola, le mette anche alla nostra libertà.

Obiezione: “se non si collabora, non si raggiunge lo scopo”. Ma è giusto costringerci a un’azione illegale? “Certo, serve a dare un segnale forte!”. Quindi tutto è lecito? Il fine giustifica i mezzi? E poi, perché un segnale “forte”? Contro cosa combattete? 

Si potrebbe occupare anche con intenzioni positive: “ci dobbiamo far sentire”, “la riforma non deve passare”. Ma questa protesta cosa risolve? Costruisce o demolisce soltanto? 



Più che una proposta concreta di cambiamento, l’occupazione sembra sia diventata una moda, quasi un appuntamento fisso sul calendario scolastico. È quello che canta Luigi Tenco nella sua Ballata della moda, in cui racconta che “il cameriere Antonio, servendo a un tavolo di grandi industriali, sentì decidere che per l’estate prossima sarebbe andata di moda l’acqua blu“. Antonio, però, rideva e ripeteva: “Me ne infischio della moda, io bevo solo quello che mi va“. Con il passare del tempo, però, beveva solo acqua blu. “Le prime volte lui si era opposto, ma poi pensò: chi me lo fa fare? e da quel giorno poco a poco si abituò“.

Siamo abituati. Crediamo di essere liberi nella misura in cui corrispondiamo a un modello. Occupare la propria scuola diventa un’esperienza da vivere in gioventù, come una gita scolastica. Siamo convinti di continuare a ragionare con la nostra testa, siamo convinti di continuare a bere quello che ci va, eppure non ci accorgiamo di come il potere, la moda, continuino a offuscarci la vista.

Questa abitudine accecante è simile a quella neglegentia di cui Seneca parla a Lucilio nella prima lettera:“Quem mihi dabis […] qui diem aestimet, qui intellegat se cotidie mori?“. Chi dà valore al giorno e comprende di morire ogni giorno? Noi non vogliamo usare inconsapevolmente il nostro tempo, non vogliamo perdere neanche un istante della nostra vita. Per citare ancora Seneca, non vogliamo esistere, ma vivere

Ecco perché, durante questi giorni di occupazione, abbiamo deciso di incontrarci per aiutarci a studiare insieme. Volevamo una valida alternativa alla perdita di tempo. Sì, “aiutarci”. Perché anche noi in un primo momento abbiamo accolto l’occupazione con gioia. Finalmente un momento per rompere la routine, per staccare la spina, per mettere in stand by l’infinita lista di compiti in classe, dimenticarci degli esami di Stato e di tutto ciò che sarà dopo, abbandonare i dubbi della scelta universitaria. Ci siamo immerse nella vita facendo un ampio respiro e trattenendo il fiato. Eppure siamo arrivate a fine giornata con il cuore soffocato dall’insoddisfazione, accorgendoci che tutto, compreso quello che chiamano relax, “è poco e piccino all’animo proprio“.

Antonella Colangiuli,
Adriana Perrelli

Liceo classico Socrate, Bari