C’è ancora spazio per la figura del maestro nel tempo odierno dominato dall’efficientismo, dal soggettivismo, dalle tecnologie, dalla virtualità illusoria? O piuttosto non abbiamo soprattutto bisogno di addestratori abili, consolatori dell’anima, semplici compagni di viaggio che si narrano le reciproche esperienze senza mai prendere posizione? 



E ancora: se accettiamo il principio del maestro come rendere compatibile il riconoscimento della sua autorevolezza e la promozione di una pedagogia della libertà, tesa alla costruzione di persone responsabili, capaci di libere decisioni mature, aperte alla comunicazione interpersonale, inserite attivamente nelle strutture sociali, in atteggiamento non conformistico, ma costruttivamente critico?



Interrogativi che, d’un lato, mettono in campo importanti questioni di carattere teorico ricorrenti nella storia umana (ad esempio autorità/libertà, padre/figlio), ma dall’altro toccano da vicino chi opera in campo educativo e scolastico. Per esempio: meglio ambire a essere “maestri” oppure restare semplici “insegnanti”? 

Intorno a questi interrogativi si svolgono le riflessioni di Giuliano Minichiello, docente di Pedagogia nell’Università di Salerno, in un utilissimo libro apparso nelle scorse settimane semplicemente intitolato L’Obbedienza (Sei editrice, pp. 170, euro 13).  Il saggio indaga le tre forme fondamentali dell’obbedienza: all’Autorità, al Padre e per l’appunto al Maestro. Il fil rouge che le tiene insieme è che l’obbedienza ben lungi dall’essere un atto subalterno a qualcuno, come banalmente si ritiene, è invece una scelta sempre esposta al rischio e cioè espressione della totale responsabilità di chi sceglie. 



Le pagine sulla figura del Maestro si trovano nella parte conclusiva del saggio, forse le più felici del libro. Per rappresentare la natura dell’azione magistrale Minichiello ricorre all’esempio dantesco di Virgilio: il Maestro è una guida che, dopo averci accompagnato nell’inferno delle passioni e della cupidigia e nel purgatorio dell’esperienza, “ci abbandona sul più bello, alle soglie della verità paradisiaca: egli non può condurre alla verità come qualcuno si conduce al cinema o a una località”. Egli non decide per noi, “ci orienta nel nostro errare, senza che possa realmente indirizzarci e salvarci”. 

Siamo soliti pensare che il discepolo cerchi un Maestro spinto dal desiderio di “sapere” in senso strettamente tecnico o competente (se fosse così il Maestro non sarebbe tale, ma semplicemente un consulente o un addestratore): il rapporto con il Maestro è invece giustificato da Minichiello dalla “decisione di fissare una meta al peregrinare, cioè di determinare l’oggetto del desiderio”.  

Abbiamo bisogno di Maestri perché se essi non ci sono o si tirano indietro la determinazione di questo “desiderio” resta incerta o mutilata. 

I giovani rischiano di cadere vittime di quell'”ospite inquietante” di cui ha parlato Galimberti, ovvero di quel nichilismo che, penetrando nelle coscienze finisce con l’annullare ogni spinta positiva, ogni ricerca del senso di sé e genera indifferenza, culto dell’apparenza o addirittura pensieri distruttivi. Il processo della scoperta di sé e del desiderio che ci guida è un cammino iniziatico verso la verità le cui tappe sono più agevoli se abbiamo la fortuna di trovare un Maestro che si occupi di noi. 

Il Maestro vero non ambisce a veder ripetuta la sua “verità”, ma è proiettato a far “riconoscere le forme semplici in cui la verità manifesta il proprio senso”. Interrogarsi su tali forme significa riconoscere i modi nei quali il bisogno di verità si impone: il problema, la domanda, il mistero. Intorno a queste tre modalità Minichiello delinea i princìpi sui quali poggia la proposta del Maestro. 

La prima “obbedienza” alla verità corrisponde alla introduzione a concepire noi stessi e il nostro rapporto con la realtà non come “dato”, ma nella forma del “problema”, ponendosi nella prospettiva di oltrepassare il “dato”, cercare risposte personali, scoprire l’errore, accettare il rischio che la ricerca comporta per il nostro destino. Il passo successivo è quello della “domanda”, atteggiamento che implica una scelta decisiva (ma non conclusiva) perché dietro la domanda stanno la costruzione del senso di noi stessi e il giudizio che noi esprimiamo sulla realtà. Attraverso la domanda, infine, accostiamo la terza forma del senso della verità e cioè il mistero, la “domanda radicale che apre alla sfera del sacro e del religioso”.

“Obbedire” a un Maestro e stabilire con un lui rapporto di discepolato non significa, dunque, accettarne passivamente gli insegnamenti. Spinge piuttosto a un lavorìo su noi stessi, alla ricerca di una verità illuminante. L’obbedienza perde, cioè, la fisionomia di atteggiamento subalterno e si offre come opportunità per crescere persone capaci di fare uso autentico della propria libertà.