La riforma pensionistica del ministro Fornero ha avuto, tra le altre conseguenze, anche quella di trattenere in servizio attivo gli insegnanti ormai sessantenni nati nei primi anni Cinquanta e che hanno vissuto direttamente, nell’arco di più di quarant’anni, vicende e momenti “scolastici” diversi e, soprattutto, hanno vissuto, prima come allievi poi come insegnanti, le diverse riforme e i diversi “progetti” ministeriali. In particolare, dopo aver frequentato in qualità di allievi una scuola strutturata ancora secondo i cosiddetti canoni “tradizionali”, hanno sperimentato (prima come studenti e poi come insegnanti) lo scardinamento di tali canoni ad opera del Sessantotto e in particolare l’annullamento nella scuola di ogni differenziazione di merito: è sufficiente ricordare, in proposito, il “sei politico” assegnato nelle università indistintamente a tutti gli studenti, senza alcun riconoscimento all’impegno nello studio e all’effettiva acquisizione di conoscenze. 



Gli insegnanti migliori, capaci di esercitare lo spirito critico nei confronti di ogni nuova proposta pedagogica, hanno però sempre saputo che non tutto della scuola tradizionale era da considerarsi negativo e che, soprattutto, appiattire tutti gli allievi su un unico voto significava distruggere la motivazione allo studio proprio negli allievi più impegnati. 



Ma quegli stessi insegnanti avevano vissuto direttamente, quando erano bambini, le situazioni in cui l’insegnante assegnava le “medaglie” e quindi, pur non accettando l’appiattimento valutativo, sapevano quanto potesse essere distruttiva l’assegnazione plateale ed estrinseca di riconoscimenti “visibili” corrispondenti non a un clima di collaborazione ma alla competizione tra gli alunni.

Cercarono quindi (anche in riferimento ai numerosi studi psicologici in materia) di fare in modo che i loro allievi conseguissero la cosiddetta “motivazione intrinseca” allo studio, confortati in tale loro convinzione ad esempio dal libro dello psicologo cognitivo Massimo Piattelli Palmarini. In questo libro, pubblicato nel 1991 e dal significativo titolo La voglia di studiare, egli metteva in evidenza come lo studio si differenzi dalla pura lettura e soprattutto come tale differenza stia “soprattutto nella testa” (p. 245); come “agire sulle motivazioni sia tutt’altro che facile” (p. 253) e come la scuola dovrebbe “interessarsi della ‘navigazione’ degli studenti entro il labirinto dell’informazione e del modo in cui essi ricavano una mappa mentale che risulta trasversale e superiore alle specifiche materie” (p. 271).



Ogni insegnante competente (o bravo che dir si voglia), in ogni caso, ha sempre riconosciuto le differenze esistenti tra gli allievi; ha sempre fatto in modo che tutti gli alunni ricevessero un riconoscimento; ha utilizzato le attività didattiche proprio per premiare tale riconoscimento. 

E ha spesso partecipato attivamente, secondo quella complementarità teorizzata dallo psicologo Bronfenbrenner, ai giochi dei propri alunni, sapendo come per i più difficili tra questi l’essere ad esempio scelti dall’insegnante come partner nei giochi di coppia costituisse un premio incommensurabile, che si traduceva poi anche in un maggior impegno nello studio. Questi insegnanti, soprattutto, sapevano che i bambini si impegnano nella misura in cui sanno di far piacere a un adulto. 

Come ricordiamo nel nostro libro Come funziona l’apprendimento (p. 21), “tutti gli insegnanti competenti riconoscono che le emozioni e i sentimenti incidono sulle performance scolastiche degli alunni” e sanno che il vero apprendimento non è frutto di imposizione, ma della decisione autonoma di apprendere. “Quanti insegnanti, ad esempio, si chiedono perché un alunno decide di voler risolvere un problema di matematica? […] A seconda della sua età e del contesto di vita, la sua decisione può essere collegata alla volontà di far piacere ai propri genitori o all’insegnante, di voler primeggiare sui compagni, di evitare una punizione, di essere promosso, di provare anche semplicemente un piacere intrinseco (il piacere funzionale)”. 

La volontà di primeggiare è quindi soltanto uno dei possibili fattori di motivazione, non l’unico e neppure il più importante. Soprattutto non necessariamente si traduce in benessere. Invece, come sottolineano due eminenti studiosi (Immordino Yang e Damasio), la necessità di provare sensazioni piacevoli, di star bene e di vivere felici con altre persone è un bisogno intrinseco a tutti gli individui, che la scuola troppo spesso trascura però di prendere in considerazione, trasmettendo addirittura la convinzione che riuscire bene a scuola non abbia nulla a che fare con il benessere o la felicità. 

L’emozione di apprendere; l’emozione di diventare competenti; l’emozione di saper utilizzare al meglio la propria mente e il proprio cervello sono componenti fondamentali della riuscita scolastica che non si può pensare possano essere attivate se non accompagnate da una profonda empatia nei confronti degli alunni. Empatia che non si gioca solo sul piano emotivo ma anche su quello cognitivo: “sentire dentro di sé” i problemi cognitivi del bambino e comprendere come sta funzionando la sua mente; prestare attenzione ai suoi segnali ed essere capaci di fornirvi risposte adeguate; non agire una didattica “tayloristica” o “fordista” mirata solo ai risultati; conoscere i “periodi sensibili” presenti anche nell’apprendimento scolastico: queste sono le condizioni più efficaci per ottenere dagli allievi il massimo impegno nello studio. 

Lascia quindi molto perplessi il progetto attivato dal ministero dell’Istruzione e denominato “Mimerito”. Esso prevede che ogni classe abbia in dotazione 40 distintivi metallici, smaltati e dal disegno accattivante. 

Il distintivo viene indossato sul grembiule nelle scuole primarie o appuntato sul diario nelle secondarie di primo grado. Ci sono gli Scudetti d’eccellenza riservati al rendimento scolastico, le Stelle di condotta d’oro e d’argento e i Brevetti d’impegno personale come riconoscimento per la buona volontà e l’impegno.

Una differenza rispetto alle medaglie utilizzate nella scuola elementare fino agli anni Cinquanta sta nel fatto che allora esse erano accompagnate da nastri tricolori, che oggi invece nessuno “osa” proporre perché il patriottismo non va più di moda (ma non si sa fino a quando, visti i corsi e ricorsi della pubblica istruzione). 

Molti insegnanti da noi interpellati hanno detto di rammentare il libro Cuore: la madre del figliolo del carbonaio che “portò alla maestra una grembialata di carbone per ringraziarla che aveva dato la medaglia al figliolo”; Derossi, che ha preso la prima medaglia e nessuno può competere con lui; Garoffi, figlio di un droghiere, che “se desidera la medaglia non è che per aver l’entrata gratis al teatro delle marionette”; il padre di Stardi, che non si aspettava la medaglia per il figlio e non ci voleva credere; Votini, che si credeva sicuro della prima medaglia e dice che il maestro fa delle ingiustizie; Precossi, con gli occhi che lasciavano indovinare una storia di patimenti, che riceve la medaglia direttamente dal Sovrintendente scolastico anche per il buon cuore e il cui padre dopo tale riconoscimento si rimette a lavorare e non beve più; il figlio dell’erbivendola, che muore e sul cui feretro, coperto da un panno nero, appuntano la medaglia… e così via.

Se già ai tempi di De Amicis la medaglia non destava solo nobili sentimenti, si può davvero essere sicuri che oggi essa provochi esclusivamente una “sana competizione” come asserito nel progetto?

Si rimane comunque stupiti che il progetto sia stato elaborato con il contributo di autorevoli esponenti del mondo scientifico, attivi nel campo della psicologia, della pedagogia, dell’orientamento e della sociologia” (cfr. sito web www.mimerito.it). Soprattutto perché si ritorna a considerare i risultati scolastici come effetto unicamente dell’impegno individuale, come se il contesto familiare e sociale non incidesse su di essi. 

Ultima considerazione: nel progetto si sottolinea più volte l’economicità dello stesso. Lasciando da parte ogni facile ironia sul costo di distintivi di latta, si rimane amareggiati nel constatare come nel ministero o al ministero nessuno proponga un serio intervento di formazione sugli insegnanti, che li metta a conoscenza dei risultati più recenti della ricerca scientifica in campo educativo e psicologico e che soprattutto li renda capaci di fare in modo che i bambini non perdano quell’entusiasmo per l’apprendimento che costituisce il carattere distintivo degli esseri umani e di cui essi sono naturalmente dotati prima di giungere a scuola.  

Perché il vero nodo è questo: come ci ricordano molti bei libri purtroppo non tradotti in italiano, i bambini sono “nati per apprendere”, sono “ansiosi di apprendere” e quindi  l’apprendimento scolastico non dovrebbe uccidere quell’entusiasmo con cui i bambini nascono e che spesso conservano purtroppo solo nella prima infanzia. Entusiasmo che non può certo esser resuscitato solo da medaglie di latta, le quali inducono certo effetti momentaneamente positivi, ma (come enunciato dallo stesso progetto)  per effetto di un condizionamento comportamentista che da decenni si è dimostrato non avere influenza a lunga scadenza. 

Quanto meno occorrerà pertanto valutare l’effetto del progetto a lunga scadenza sperando però che, in ogni caso, si tenga sempre ben presente la domanda che Daniel Pennac formula nel suo libro Come un romanzo (p. 66): “Se anziché esigere l’apprendimento dei bambini, gli insegnanti decidessero improvvisamente di condividere il loro personale piacere di apprendere?”.

PS − Ci permettiamo di riproporre un’esperienza riportata in un nostro libro pubblicato nel 1999 e rieditato nel 2007 (Bonino, S., Reffieuna, A. Psicologia dello sviluppo e scuola primaria, Giunti Editore, pp. 100-101) dal titolo La patente di lettore:

“A dimostrazione di quanto poco importante sia, per i bambini della scuola primaria, il documento di valutazione ufficiale e di come l’intelligenza pedagogica degli insegnanti possa trovare modalità migliori di conoscenza e di promozione dell’apprendimento degli alunni, crediamo interessante riferire l’esperienza effettuata in una classe prima di una scuola della provincia di Torino.

All’inizio dell’anno scolastico, le insegnanti comunicarono ai bambini che nel momento in cui avessero imparato a leggere sarebbe stata loro consegnata la “patente di lettore”, analoga a quella che i loro genitori utilizzavano per poter guidare l’automobile. La condizione necessaria per poter conseguire la patente era però che tutti i bambini della classe imparassero a leggere. Quindi la patente non sarebbe stata consegnata individualmente a ciascun bambino come premio per l’impegno individuale: la consegna sarebbe avvenuta nel corso di una festa con i genitori e avrebbe premiato i bambini tutti insieme per il raggiungimento di un obiettivo comune.

L’invenzione della patente nasceva dall’esigenza che l’apprendimento della lettura comportasse un coinvolgimento emotivo particolarmente profondo, al fine di creare le condizioni affinché si realizzassero tre obiettivi che le insegnanti si erano proposte: sottolineare l’importanza dell’acquisizione dello strumento della lettura come mezzo per entrare autonomamente nel mondo della parola scritta e quindi nel mondo degli adulti (di qui la scelta di avere un documento simile a quello dei “grandi”); riconoscere e premiare lo sforzo fatto dai bambini e l’aiuto fornito dai genitori (di qui la scelta della festa in comune); fornire una motivazione affinché i bambini raggiungessero l’obiettivo di diventare “buoni lettori”, capaci di leggere con espressività e soprattutto di capire quanto letto. 

L’aver fissato non un traguardo individuale ma un traguardo comune a tutta la classe non solo impedì i comportamenti competitivi, ma diede origine a forme di aiuto spontaneo: quando, nel mese di dicembre, alcuni bambini cominciarono a essere capaci di leggere in modo soddisfacente mentre altri (tra cui una bambina con gravi problemi) manifestavano ancora grosse difficoltà, i primi spesso trascorrevano i momenti di ricreazione o i momenti di pausa a far esercitare i compagni, affinché raggiungessero l’obiettivo in tempi brevi.

Come decidere, però, il momento in cui era possibile affermare che tutti avevano imparato a leggere? Se le insegnanti si fossero limitate a deciderlo autonomamente e a comunicarlo ai bambini, la cosa avrebbe avuto scarso significato. Da alcuni spettacoli televisivi per l’infanzia venne un’idea veramente luminosa. Ogni bambino fu invitato a prepararsi un testo che avrebbe poi dovuto leggere ad alta voce di fronte ai compagni. Questi ultimi, dotati di palette di cartone con i numeri da 1 a 3, avrebbero dovuto esprimere il giudizio. Fu interessante, in questa occasione, constatare che mentre i bambini che si collocavano a livelli di competenza elevati differenziavano il voto a seconda della prestazione, coloro che erano consapevoli di presentare ancora qualche problema attribuivano indistintamente il massimo dei voti a tutti. Un applauso, insieme a un ottimo punteggio, fu indirizzato spontaneamente  alla bambina che presentava maggiori difficoltà.

Si mantenne la promessa iniziale e si consegnò la patente in modo “ufficiale” nel corso di una festa a cui parteciparono tutti i genitori.

Sarebbe stato facile prevedere deterministicamente, in partenza, che l’utilizzo della patente e l’attribuzione di votazione avrebbero scatenato la competizione più sfrenata tra bambini e anche tra genitori (“Mio figlio ha avuto la patente la settimana scorsa! Come mai il suo non l’ha ancora avuta?”). Le soluzioni trovate dalle insegnanti dimostrano che il determinismo può essere superato se gli strumenti vengono utilizzati in modo intelligente e se sono ben chiari i presupposti della propria azione. Dimostrano altresì come alcuni principi pedagogici e didattici per i quali si potrebbero individuare molti riferimenti teorici (l’educazione alla cooperazione, la valorizzazione dell’educazione tra coetanei, l’attivazione di procedure di autovalutazione, l’incidenza del clima della classe, l’incoraggiamento verso i più deboli) siano stati messi in atto in forma estremamente semplice e umile, ma altrettanto efficace”.