È noto a tutti che Renzi ha dedicato alla scuola molta attenzione durante il cursus honorum che ha preceduto la sua inusuale ascesa al premierato. Intervenendo nella trasmissione di Fazio, “Che tempo che fa”, disse di voler coinvolgere famiglie, assessori, insegnanti. Disse di voler ridare autorevolezza agli insegnanti, che non sono dei “numerini da pagare alla fine del mese”. In Italia, aggiunse, “non si vuole bene all’insegnante come educatore. Quando si va al ricevimento si dà ragione ai figli, non all’insegnante”. Parole sacrosante, come quelle da lui dedicate alla scuola media: “Vorrei riformare la scuola in un orizzonte di vent’anni, a partire dalle scuole medie dove sono intrappolati nei banchi a sentire un programma che poi risentiranno alle superiori… La grande scommessa è scatafasciare il programma delle scuole medie sapendo che i ragazzi oggi sono pieni di informazioni ma hanno difficoltà di comprensione”.
Ora, è cosa opportuna entrare nell’agone della politica scolastica con un progetto. E gli spunti che abbiamo riportato sono sufficienti a denotare un interesse per la scuola curvato sugli educatori e sui contenuti effettivi dell’apprendimento dei ragazzi. Sta bene. Ma chiunque sia il ministro destinato a renderli operativi, non dovrebbe esimersi dalla constatazione di quanto è successo di recente, proprio nel momento in cui le parole del programma renziano elogiativo di scuola e insegnanti erano formulate. È accaduto che in una sorta di parabola evangelica applicata alla lettera (e perciò maliziosamente scorretta), a chi non aveva è stato tolto anche quello che aveva. Gli stipendi dei docenti, non lauti, si sono ulteriormente assottigliati con il blocco del contratto e degli scatti di anzianità; alle scuole che fanno il loro lavoro, il fondo nazionale per il miglioramento dell’offerta formativa già esile è stato drenato dal prelievo ad uso del recupero degli scatti medesimi.
Per accennare al piano dei profili formativi, anche in questo ambito occorre focalizzare il fenomeno dell’impoverimento di una tradizione culturale nostrana basata sull’implicazione del docente in ciò che comunica (sapere ed essere sono la stessa cosa) ad opera di procedure standardizzate, scopiazzate dall’Europa, che si riproducono da scuola e scuola, spesso in modo acritico: i nostri sono i tempi della legalità ridotta spesso a retorica e delle lingue straniere che si apprendono in molti casi senza la dovuta attenzione all’apporto che per la vita reale hanno le forme storico-linguistiche che sottendono.
Che la scuola italiana sia prigioniera dello statalismo forse lo avevamo dimenticato, finché non ci si è resi conto che i margini dell’autonomia concessa agli istituti scolastici sono riconducibili a modelli uniformati e abbastanza prevedibili: accorpamento e verticalizzazione degli istituti nel segmento primario; rinforzo disciplinare con qualche taglio e qualche rattoppo nel segmento secondario. Si fa il massimo del possibile per invogliare gli alunni ad iscriversi e poi a restare, ma entro una camicia di forza data dall’impossibilità di fruire di flessibilità nella gestione dell’organico e delle risorse.
Ma i ritmi di certa scuola non sono necessariamente quelli dell’economia e della politica. Dentro strutture rigide tanti insegnanti e dirigenti operosi, animati da autentico spirito di servizio, magari poco appariscenti quanto fedeli ad una idea di compito e di responsabilità, hanno lavorato per dare alla scuola una finalità. Che non è solo quel qualcosa in più che si offre alla “utenza” (una lingua in uso, un laboratorio, una lim), ma il nesso che collega l’insegnamento con il significato che anima le persone e le fa sentire vive mentre studiano, apprendono, progettano.
Da questo punto di vista, il panorama della scuola italiana, seppure a macchia di leopardo, è confortante, talvolta ammirevole. Consegnato però alla buona volontà dei singoli, cui spetta interpretare le norme (dunque da conoscere nei minimi dettagli) e piegarle al bene comune di ragazzi e contesti territoriali.
Esauritasi la fase riformistica (Berlinguer, Moratti, Fioroni, Gelmini) che ha consegnato alla storia organismi incompiuti (non abbiamo né un vero sistema integrato statale-non statale, né un canale statale-regionale dell’istruzione e formazione professionale degno di questo nome) la politica scolastica negli ultimissimi tempi ha gravitato attorno a messaggi di carattere etico-sociale che, complici le nuove tecnologie, tendono a rilanciare l’idea dell’uomo in funzione dell’ambiente globalizzato piuttosto che della scuola a servizio di una comunità o di un popolo.
Si ha paura (ma è una paura calcolata) di lasciare libero un soggetto di esprimersi, perciò ogni mossa che viene dal centro deve prevedere modelli formativi dei docenti e degli alunni i cui contenuti sono già programmati.
Se il Paese ripartirà dal punto di vista economico e la scuola nel suo insieme sarà chiamata a giocare una parte che non si riduca solo a subire restrizioni, il tema del soggetto (chi fa la scuola e con quali profonde motivazioni) dovrà essere posto apertamente, perché già sottotraccia, in forma quasi clandestina, una soggettività fatta di alunni e docenti desiderosi e motivati si muove. Sono le cellule di un corpo ancora vivo che hanno modificato in senso positivo, in alcune regioni, le ultime rilevazioni internazionali sulla qualità della scuola nostrana. Sono le realtà di docenti che si aggiornano e formano a loro spese e liberamente. Sono dirigenti che si confrontano e si collegano in rete.
Se c’è un soggetto (e lo Stato centrale può solo riconoscerlo, non tentare di manipolarlo artificialmente) si può aprire una stagione di liberalizzazione di tutto il sistema che può andare (ecco le poche cose da fare) dal nuovo contratto per i docenti ad una autonomia reale e ad una nuova governance per le scuole. È possibile e niente affatto scontato. È soprattutto questione di coraggio nell’affrontare un altro mare.