Mi è capitato di leggere i testi delle canzoni di Sanremo, quelle dei “big”. Mi hanno colpito due cose. La prima, un po’ frivola, è lo sprezzo diffuso per la punteggiatura (o manca o è messa lì senza criterio): va bene che sono testi di canzoni, quindi è la musica stessa a dare la scansione ritmica, però la punteggiatura non serve solo per la scansione ritmica, serve anche ad agevolare la lettura. Si vede che questi testi senza punteggiatura non sono fatti per essere letti ma solo per essere ascoltati.
L’altra cosa, legata alla precedente ma assai meno frivola, è la mancanza di musica nei testi stessi: sembrano piuttosto parole messe lì perché bisognava farlo, altrimenti non era una canzone. La musica che c’è in un testo scritto non è per forza una musica fatta di note, ma dipende dal rapporto di ogni parola con le altre. Mi rendo conto che può essere difficile da comprendere; un esempio di questa musica è un brano famoso dei Promessi sposi, capitolo 8, “Addio, monti, sorgenti dall’acque ed elevati al cielo”. Nelle poesie la musica si sente di più, ovviamente, ma non dipende solo dal ritmo. Le canzoni di Sanremo 2014 a volte hanno ritmo ma non hanno musica propria, non raccontano, non vogliono affascinare l’uditore, sono un po’ noiose anche quando c’è uno spunto interessante; però sono certa che suoneranno bene all’orecchio, quando le sentiremo con le loro melodie e s’infileranno in testa. Sono fatte per questo.
Così, pensando al “suonare bene”, mi è venuta un’idea brillante. Ma non dovrei dirmelo da sola; diciamo che mi pare un’idea brillante. Una terza cosa mi aveva colpito, in Frankie Hi-nrg mc, l’uso delle figure retoriche; perciò ho usato quel criterio per rileggere tutte le canzoni. Un uomo è vivo e Pedala (entrambe di Frankie) spandono a pioggia l’allitterazione, ma possiamo trovare anche enjambement (sempre nelle canzoni di Frankie, oppure in Antonella Ruggiero, Quando balliamo), anafora (ancora Un uomo è vivo – mai visto tanto affetto per le figure retoriche – ma anche Raphael Gualazzi & The Bloody Beetroot, Liberi o no, e Renzo Rubino, Ora), similitudini e metafore, alcune comuni (la “luce calda” in Arisa, Lentamente; “bagnati dal sole” in Noemi, Bagnati dal sole), altre sballate (Cristiano De André, Il cielo è vuoto, “Il cielo è vuoto, c’è soltanto il sole/Che acceca la terra e fa esplodere il grano”, ma figuriamoci), altre misteriose (che sarà mai il “tempo fragile” di Giuliano Palma, Un bacio crudele? Che significa esattamente che “un uomo è un albero”, come canterà Noemi?); e così via.
Allora, ecco l’idea: penso che gli insegnanti di italiano potrebbero usare questi testi, che faranno parte per qualche giorno della nostra vita quotidiana, per studiare le figure retoriche insieme ai loro allievi.
Invece di scrutare i versi di Dante e Leopardi per cercarvi litoti ed enjambement, ottenendo di radicare nei poveri allievi il disgusto per la poesia in genere, con la convinzione che sia roba da sfigati, gli insegnanti potrebbero usare questi testi, diciamo, quotidiani per mostrare agli allievi quali sono le figure retoriche, come si usano, come si riconoscono e così via. Così gli scritti di Dante e Leopardi e tutti gli altri potrebbero essere letti e basta, anziché affettati come carote; i ragazzi poi se li trovano da soli, gli enjambement nella Divina Commedia, perché è divertente trovarli se nessuno ti costringe a farlo.
Mi rigiro in testa l’idea. Poi vado a vedere che cosa dice lo Zingarelli della figura retorica e trovo questo: “Figura retorica, ogni espressione o costrutto che si allontana da un uso della lingua in cui le parole designano univocamente e direttamente le cose; si impiega per dare forza espressiva al discorso, per ottenere effetti di attenuazione, enfatizzazione e sim. (es. l’affermazione non è bello invece che è brutto è una figura retorica – la litote – che attenua la crudezza della frase senza cambiarne il significato)”.
Giusto, la figura retorica serve a dare forza espressiva al discorso; come quando ho scritto “affettati come carote” anziché solo “affettati” – che è comunque una figura retorica, è una metafora; se però aggiungo “come carote” diventa una similitudine, che in quel contesto è più espressiva della metafora e suona anche meglio. Le parole devono suonare bene insieme, mai sostenuto il contrario; però non devono solo suonare bene, come invece va di moda adesso.
Ma se quelle canzoni non esprimono niente, le figure retoriche che ci stanno a fare? A che cosa danno forza, se non c’è niente a cui dare forza, visto che i testi non servono a raccontare ma solo ad essere spalmati sulla musica?
Forse la mia idea non è poi così brillante. I poveri insegnanti si troverebbero nella necessità di spiegare agli allievi appunto che oggigiorno le parole vengono usate solo come suoni, senza curarsi del loro significato, che invece è l’unico modo per scrivere prosa o poesia (anche senza rima e metro) e per creare delle figure retoriche veramente espressive, altro che roba da sfigati.
Sarebbero costretti a riconoscere che dipende anche un po’ da loro se gli adolescenti italiani non sanno più collegare parola e oggetto, perché nessuno gli insegna a farlo, perché nessuno insegna loro che le parole sono i nomi di esperienze e non soltanto suoni, perché addirittura gli si mette in testa che l’esperienza non esiste, ma esiste solo ciò che uno pensa – come se fosse possibile avere un pensiero che non parta da qualcosa di visto o toccato, ne siamo consapevoli o no. E poi ci stupiamo se escono dall’università e non sanno scrivere? La lingua madre s’impara da piccoli, non all’università.
I poveri insegnanti di italiano, dalla primaria alle superiori, dovrebbero ammettere che anche loro hanno una qualche responsabilità, in tutto questo, anche se non sono i maggiori responsabili (oppure sì? Io non lo credo, ma certo ci sarebbe da discutere). Dovrebbero infine riconoscere che non è colpa dei ragazzi se non sanno articolare niente di più profondo che “tvttb teso”. E questo li schianterebbe. O forse, se non si lasciassero assorbire troppo dallo scrollarsi di dosso le responsabilità che pure hanno, gli ridarebbe entusiasmo per la nostra bella lingua, chissà.
(Umberta Mesina)