Nei giorni scorsi la bomba è scoppiata: perfino Repubblica e Corriere non hanno potuto ignorarla, anche se hanno tentato di minimizzarne la portata.
Emblematici i titoli del Corriere: “Fiabe sconsigliate ai bambini: è polemica” e “Ma re e regine fanno male ai bambini?” che spostano l’attenzione del lettore dalla questione centrale ad alcune affermazioni contenute nel materiale preparato dall’Istituto Beck nel quadro della campagna guidata dall’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (Unar). Le fiabe (prese però nella loro versione disneyana!) sarebbero una delle concause del permanere nelle giovani generazioni di un modello sessuale e familiare “tradizionale” e, di conseguenza, una delle radici dell’omofobia e della intolleranza.
Ma ben più ambiziosi sono in realtà gli obiettivi dell’azione “rieducativa” progettata: avviare in tutto il Paese una campagna di indottrinamento alle teorie del Gender in grado di investire, attraverso la scuola, tutti i giovani dai tre ai diciannove anni di età. Prendendo a prestito l’espressione contenuta in una lettera, presente sul sito dello stesso Istituto Beck, con cui si intende difendere la correttezza della posizione tenuta, tra gli obiettivi espliciti che hanno guidato la stesura del materiale è indicato quello di correggere “le influenze che l’ambiente socio-culturale e religioso può esercitare nel generare omofobia e omofobia interiorizzata…“, partendo da granitiche certezze fondate, disgraziatamente, su una scienza ridotta ad alcuni studi accuratamente e ideologicamente selezionati, senza neppure lasciar intuire o far trasparire la problematicità di un tema fortemente discusso sul piano scientifico e portatore di interrogativi, sociali, etici oltre che religiosi che interpellano la coscienza, la responsabilità, la libertà di ogni uomo. Di tutto ciò nessuna traccia in testi che dovrebbero “educare”, accompagnare cioè sostenere e sollecitare la presa di coscienza di soggetti in crescita!
A questi corto-circuiti intellettuali nella lettera si aggiungono acrobazie verbali, per cui i materiali “non sono stati distribuiti… sono stati messi a disposizione attraverso un download protetto con password per coloro che ne avessero fatto esplicita richiesta”, (come se ci fosse differenza tra “distribuire” e “mettere a disposizione”) o che sono “…rivolti esclusivamente agli insegnanti e non agli alunni…”, affermazione smentita dall’impostazione grafica e contenutistica dei materiali proposti.
Quanto poi all’affermazione che “…in quanto tali, possono essere utilizzati con le modalità che gli insegnanti e i genitori, coinvolti dalla scuola nel progetto, ritengano più opportune” si dovrebbe spiegare (ma questo non tocca certamente all’Istituto Beck) come e quando sono avvenuti i coinvolgimenti e perché il gruppo cui è affidata la direzione dell’intervento ha un’impostazione “totalitariamente” unidirezionale. Oltre al direttore dell’Unar e a sei membri istituzionali, infatti, sono ben 29 le associazioni presenti e quasi tutte hanno nella loro ragione sociali chiarissimi riferimenti al mondo LGBT (Lesbian, Gay, Bisex, Trans) mentre non sono in alcun modo presenti voci portatrici di preoccupazioni diverse dalla diffusione del nuovo verbo “ideologico”.
Anche per questo le affermazioni fatte dall’on. Guerra − l’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio da cui dipende il Dipartimento per le pari opportunità, al cui interno è collocato l’Unar – in una intervista sono apparse assolutamente non difendibili. Com’è possibile sostenere di non essere stata al corrente di nulla? Due anni di lavoro, ben finanziato, e il responsabile politico non se ne accorge? Un tavolo di lavoro interistituzionale di cui nessuno da conto e nessuno chiede conto! Se fosse vero, il direttore dell’Unar non dovrebbe solo essere richiamato, come dichiara di aver fatto il sottosegretario, ma immediatamente sospeso dal servizio in attesa di un procedimento disciplinare che, per la natura dei fatti accertati e contestati, dovrebbe portare al licenziamento.
Ma il sottosegretario non si è accorto che, affermando di ignorare tutto, ha dichiarato la propria incapacità ad esercitare il proprio ruolo: e allora perché, coerentemente, non dimettersi? Naturalmente nulla di tutto questo è accaduto né accadrà, anche perché la spiegazione più plausibile di quanto è avvenuto è che tutti sapessero ma che nulla dovesse trapelare ufficialmente fino a cose ben avviate: e allora anche le inevitabili proteste, avrebbero potuto facilmente essere smorzate, magari appoggiandosi al sempiterno ritornello secondo cui non possiamo rimanere indietro rispetto agli altri Paesi europei.
Si può solo sperare nella non conferma della Guerra nel prossimo Governo Renzi e questo speriamo anche per gli altri protagonisti di questa vicenda tutti seguaci delle tre scimmiette (non sentire, non parlare, non vedere).
Tra questi spicca l’ex ministro dell’Istruzione, on. Carrozza, che nell’autunno scorso, quando già nel sito ufficiale del ministero compariva una dichiarazione di intenti che poneva al centro dell’impegno del Miur la lotta all’omofobia, in una trasmissione radiofonica del mattino a domanda esplicita di un ascoltatore rispondeva che l’educazione al gender non era in alcun modo una priorità e che quindi non valeva neppure la pena di parlarne…
Anche nei giorni scorso lcuni autorevoli rappresentanti politici del Miur hanno dichiarato di non saperne niente. Ma com’è possibile sostenere che il ministero dell’Istruzione non era a conoscenza di nulla se il sottosegretario Rossi Doria, rispondendo a metà gennaio ad una interpellanza presentata dall’on. Gian Luigi Gigli, testualmente affermava che “Il documento in questione è stato elaborato da un tavolo interistituzionale, al quale hanno preso parte le amministrazioni interessate, le parti sociali e le associazioni coinvolte sulla materia, coadiuvato da un apposito gruppo di lavoro…” aggiungendo poi che “la fase di attuazione del documento menzionato riguarda, invece, direttamente le attribuzioni del ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca, che io qui rappresento, e delle istituzioni scolastiche”.
A mano a mano che emergono informazioni e dati oggettivi relativi al progetto Unar esso appare come un’ulteriore occasione in cui lo stato, sia nei suoi politici che nei suoi burocrati, ha perso: perché ha pensato di avere davanti non cittadini ma sudditi, perché ha usato il potere in nome dell’ideologia, perché ha avuto paura che quanto voleva fare suscitasse un confronto libero e per questo è ricorso alla menzogna. Per questo non è stata in alcun modo un’esagerazione richiamare, a proposito di questi fatti, il ministero della Cultura Popolare.
Per consolarci e non potendo disporre di Tapiri, propongo che venga almeno istituito il premio “Naso di Pinocchio” e che venga pubblicamente assegnato ex-equo a tutti i protagonisti di questa triste vicenda.