L’articolo apparso ieri sul Corriere della Sera, “La scuola che rifiuta di usare i tablet” (Antonella De Gregorio, p. 20) riporta d’attualità un convegno che si è tenuto a Roma il 29 gennaio scorso, “Educare alla rete. L’alfabeto della nuova cittadinanza nella società digitale“ organizzato in occasione della Giornata europea della protezione dei dati, una iniziativa promossa dal Consiglio d’Europa con il sostegno della Commissione Ue e di tutte le Autorità europee per la protezione dei dati personali, con l’obiettivo di “sensibilizzare i cittadini sui diritti legati alla tutela della riservatezza, della dignità della persona e delle libertà fondamentali”.
Ai lavori, aperti da Antonello Soro, presidente del Garante per la protezione dei dati personali, sono intervenuti Maria Chiara Carrozza, ministro dell’Istruzione, Francesco Caio, commissario di governo per l’attuazione dell’Agenda digitale e Luigi Gubitosi, direttore generale della Rai.
L’iniziativa si è rivelata un evento assai interessante per le riflessioni e alcune proposte avanzate dai relatori. L’ intervento di Antonello Soro aveva un titolo assai suggestivo a riguardo: “Educare alla rete. L’alfabeto della nuova cittadinanza nella società digitale”. Dopo aver rilevato che “Internet da strumento di comunicazione si è trasformato in presupposto dei comportamenti individuali, principale piattaforma su cui costruire relazioni interpersonali, lavoro, erogazione di servizi, commerci, contenuti: è diventato l’ambiente in cui nasce la cultura e si forma un modo di abitare il mondo e di organizzarlo” e che pertanto “dobbiamo, tutti, avere consapevolezza che questo ambiente non è un luogo separato, una realtà parallela ma piuttosto lo spazio in cui si dispiega una parte sempre più importante della vita reale.”, il Garante ha fatto alcune osservazioni che conviene riportare per intero.
Dobbiamo sfuggire due tentazioni estreme e opposte: da una parte quella di una inutile e stupida tecnofobia, la fuga dall’innovazione, l’idea apocalittica che attribuisce alla Rete la colpa di tutti i mali della modernità e, dall’altra, la rinuncia rassegnata a contrastare le distorsioni del sistema, a ricercare una qualche regolazione dei processi globali che presiedono alla comunicazione elettronica e più in generale a vivere responsabilmente il nostro tempo. […] L’illusorio anonimato che Internet sembra garantire (attraverso ad esempio l’utilizzo di nickname o profili falsi) spesso consente di ledere e calpestare senza rispetto i dati sensibili, rubare identità, demolire psicologicamente, con comportamenti aggressivi, i compagni. Molestie, minacce, diffamazione, gravi fattispecie sanzionate dal codice penale, non perdono certo di significato se realizzate nel web. Tutto ciò che facciamo in Rete diventa il contenuto delle nostre vite, delle nostre biografie, che ne saranno condizionate per sempre, soprattutto a causa della stessa dimensione indeterminata ed indefinita della Rete. Occorre invertire la rotta ed evitare che i giovani siano sfruttati e percepiti soltanto come consumatori passivi di tecnologia, incoraggiandoli a comprendere i principi fondamentali e, soprattutto, i rischi (sempre più invisibili) che si corrono. Così come non lasciamo cartelli per avvertire i ladri dell’assenza da casa, allo stesso modo dovremmo imparare ad evitare di lasciare minuziosi dettagli sui nostri spostamenti sui social network; così come ci hanno insegnato a non dare confidenza agli sconosciuti, egualmente dovremmo evitare di inserire i dettagli delle nostre vite, soprattutto se intimi, su Internet”.
E ancora:
“La scuola potrebbe svolgere un ruolo di primo piano prevedendo, nell’ambito dei programmi scolastici, specifici progetti educativi che insegnino ai giovani il modo di confrontarsi costruttivamente con le nuove forme espressive che la Rete offre loro, al fine di promuovere una gestione consapevole di tutti gli aspetti della propria vita che vengono consegnati al mondo online. Vorrei chiedere al Ministro: possiamo immaginare l’educazione digitale come materia di studio a partire dalla scuola di base? Dal canto loro, gli educatori ed i formatori devono essere aiutati a colmare il deficit di conoscenza dei nuovi fenomeni e strumenti comunicativi. Anche per questo motivo tutti gli attori istituzionali – il Governo, il Parlamento ma anche il servizio pubblico radiotelevisivo – sono chiamati ad una nuova missione”.
Se da un lato dal discorso di Soro emerge l’inevitabilità del fattore tecnologico nella vita quotidiana di ciascuno, dall’altro si segnala l’urgenza non solo di regolare dei diritti ma di garantire una educazione nell’utilizzo consapevole e corretto degli strumenti.
La replica del ministro Carozza è davvero interessante perché tiene conto di fattori realistici di spesa (un nuovo insegnamento costerebbe troppo) ma soprattutto pedagogici. Ha affermato infatti il ministro che “l’educazione digitale è un tema trasversale che va affrontato a livello nazionale, sia per chi utilizza servizi tramite la rete, sia per chi li sviluppa” e che occorre tenere conto del fatto che inserire una nuova materia “costa qualche milione di euro“.
Il ministro quindi non è favorevole all’introduzione di ore specifiche dedicate alla materia, ma “ad attività trasversali. Ci sono molti progetti ma non si tratta di una disciplina vera e propria”. Ha ribadito il suo “no all’introduzione di nuove discipline. La tecnologia digitale è un mezzo e tutte le materie devono avvalersene, come fu per il libro stampato sul quale si basò il sistema scolastico dell’Ottocento”.
Ha aggiunto inoltre che la scuola “deve cambiare la sua struttura seguendo il nuovo modo in cui il sapere si trasmette. Probabilmente nella scuola 2.0 dovrà cambiare anche l’allestimento delle aule, non più con una didattica frontale“. Anche gli insegnanti sono interessati a questo cambiamento: “devono sapere che parte del proprio tempo è andare sull’educazione digitale, non come elemento aggiuntivo ma come parte della propria professionalità“.
Un discorso a parte invece secondo il ministro merita l’educazione etica al digitale che riguarderebbe “un’estensione dell’educazione civica, perché gli strumenti dell’accesso alla rete sono tali, così evoluti e pervasivi, che richiedono anche una formazione etica, non solo tecnica”.
Presentati alcuni dei ricchi spunti offerti dagli interventi al convegno, fermiamoci a riflettere su una questione nodale. È davvero necessario un insegnamento apposito per le nuove tecnologie come proposto del Garante della privacy ma negato dal ministro?
La questione è più complessa di quel che sembra, anche se la correttezza della posizione di fondo del ministro di legare l’utilizzo della tecnologia alla prassi didattica ordinaria mi pare evidente. Non avrebbe senso far passare anni a dei bambini per mostrare come funziona un quaderno, una matita, un libro. Analogamente occorre riconoscere la natura strumentale di tablet, pc, ecc. Lo strumento è ciò che si utilizza per realizzare un’opera: ha un valore funzionale, insomma, e si impara ad usarlo utilizzandolo per il suo scopo. Nella scuola quindi la collocazione più adeguata è la prassi didattica ordinaria come suggerisce il ministro.
Attraverso un tablet, per esempio, si accede e si possono scambiare informazioni molto più facilmente che se ci si deve recare in biblioteca a cercare del materiale o dei testi che forse non si troveranno neppure. Disegnare un istogramma a torta per una ricerca di geografia è molto più veloce e preciso se realizzato a partire da un foglio di calcolo che tracciato con il compasso con percentuali un po’ fantasiose. Realizzare una concordanza (frase in cui compare una parola chiave che si intende analizzare in un testo) in cui studiare l’utilizzo della parola “galantuomo” nei Promessi Sposi con un pc con un testo in formato elettronico è molto più veloce che sfogliare il romanzo. Approntare un documento ordinato, presentabile, con titoli, stili e sommari è molto più semplice con un programma di video scrittura che a mano o con archeologiche macchine per scrivere. L’elenco potrebbe continuare in innumerevoli applicazioni didattiche.
Ci sono, come si vede, indubbi vantaggi nell’utilizzo delle tecnologie. Ma la condizione è che siano utilizzate per realizzare un lavoro vero (cioè che sarebbe comunque richiesto dalla disciplina che si sta appendendo) in maniera più economica ed efficace.
La questione, dicevo, è complessa per tre fattori: 1. la competenza informatica degli studenti, 2. la disponibilità dei docenti a tenere conto della tecnologia nel ridefinire la propria professione, 3. l’infrastruttura tecnologica della scuola.
1. Prima di tutto il problema nella prassi didattica reale è la familiarità disomogenea tra gli studenti nelle classi. C’è chi “smanetta” e chi ha difficoltà a operare un copia-incolla. Inoltre l’apprendimento sostanzialmente da autodidatta di molti ragazzi crea un habitus di lavoro poco razionale ed organizzato. La mia esperienza di docente di laboratorio informatico mi ha portato su questo punto a queste conclusioni. Un periodo di alfabetizzazione e di educazione ad un approccio non istintivo e casuale con lo strumento è utile se non indispensabile. Mi sono spesso trovato di fronte a comportamenti e percorsi di lavoro che definirei eufemisticamente “fantasiosi”, poco efficaci. Qualche lezione “tecnica” in cui uniformare i livelli è indispensabile. È però a mio avviso imprescindibile che il docente di laboratorio sia non uno specialista informatico ma un docente della classe che leghi l’apprendimento tecnico al proprio lavoro ordinario. Un’ora aggiuntiva per questo lavoro con gli studenti mi pare utilissima nella secondaria superiore nel primo biennio e se possibile nei livelli inferiori. Invece che inventarsi strane attività, si può intervenire con l’autonomia scolastica lavorando sulla percentuale concessa ad ogni istituto (in pratica con ore da 55 minuti per esempio e non di 60 minuti) e introducendo questa opportunità.
2. Il secondo fattore sono i docenti. Non nascondo la diffidenza per non dire la repulsione di alcuni colleghi per la tecnologia. Posso testimoniare però che la mia prassi didattica si è molto semplificata grazie a questi strumenti. Disporre di dispositivi su cui potere archiviare testi molto corposi (dizionari… ); poter accedere in classe a testi, presentazioni, video…; poter esportare e mettere a disposizione degli studenti “lavagne” che conservano i contenuti di una lezione realizzata anche con l’ausilio della Lim; proiettare testi o correzione di prove durante la lezione grazie all’ausilio di un visualizzatore (una lampada che cattura e proietta immagini), sono tutti elementi che permettono una didattica più efficace e partecipata.
3. Quello che sopra è stato descritto richiede però una infrastruttura tecnologica di cui poche scuole dispongono. Senza una buona rete wifi, Lim, visualizzatore, pc con casse audio, proiettore, tablet per il docente (ed eventualmente per gli studenti), laboratorio informatico nulla di quanto prima mostrato è praticamente realizzabile. Io ho la fortuna di poter lavorare in una scuola che ha creduto e potuto investire in questo ambito. Quanti colleghi sono nelle mie condizioni? Le promesse del ministro di dotare le scuole di una infrastruttura tecnologica quando potrà realizzarsi concretamente?
Concludo con una semplice considerazione. In una realtà e in una vita come quella descritta dal Garante della privacy sempre più pervasa dalla tecnologia la scuola non può non svolgere il suo ruolo educativo in cui docenti e studenti sono chiamati ad una sfida comune: educare ed educarsi in questo nuovo mondo.