Sebbene non sia ancora reperibile presso le fonti informative istituzionali, da qualche giorno si è diffusa tramite il tam tam della rete una nota Miur a firma del capo dipartimento Luciano Chiappetta che ha per oggetto: “Deroga all’obbligo scolastico di alunni adottati. Indicazioni”.
Qualora sia confermata l’ufficialità del documento nella stesura che abbiamo visto, ci troveremmo di fronte ad una buona notizia che però, come sempre, ha anche il rovescio della medaglia.
Ma partiamo dal positivo.
L’obbligo di istruzione è regolato dalla legge 296 del 2006, la finanziaria 2007 per intenderci. Tale obbligo, già previsto dall’art. 34 della Costituzione, va più opportunamente concepito come diritto-dovere all’istruzione e formazione, in una prospettiva olistica focalizzata sulla persona e sulla sua educazione e formazione più che sulla centralità della scuola, scelta formalizzata dalla legge 53 del 2003 e dal decreto attuativo n. 76/2005.
Nel panorama socio-culturale italiano, la “leva” scolastica per età è un retaggio di vecchia data che ha segnato il passaggio all’Unità d’Italia e che, forse, è stato funzionale a “fare gli italiani”, alla luce di dettami etici, culturali e giuridici che non erano ancora loro propri.
Deroghe alla leva dei sei anni, fino ad oggi, erano previste per bambini con disabilità, qualora famiglia, équipe psicosociomedica ed équipe educativa avessero convenuto sull’opportunità di garantire al bambino un anno di esperienza aggiuntiva presso la scuola dell’infanzia (il famoso “anno di raccordo”). Inoltre, tra le pieghe di altre norme (D.P.R. 294/99, e C.M. 2 del 2010 riferibile all’integrazione di alunni di cittadianza non italiana), si poteva forse rinvenire la possibilità di un ritardo per garantire ai bambini di cittadinanza non italiana che ne avessero tratto significativo vantaggio l’inserimento in una classe diversa da quella corrispondente all’età anagrafica. Ma niente di più.
Da anni, tuttavia, le famiglie che adottano un bambino e le associazioni che le stesse hanno fondato per un reciproco confronto e sostegno evidenziano che, qualora, come sempre più spesso accade, il proprio figlio arrivi in famiglia non piccolissimo, magari a ridosso dell’epoca dell’inserimento scolastico, la priorità non è certo l’ingresso a scuola. Questa, infatti è un’esperienza “primaria”, come dice il nome stesso del grado di scuola, quindi, per certi versi, fondativa. Ma si tratta della fondazione attraverso l’introduzione in un sistema culturale e la maturazione di uno sguardo conoscitivo sulla realtà e, correlatamente, su di sé, che non stanno in piedi da sé, ma a sua volta devono fondarsi su ben altri pilastri, che sono, al fondo, la relazione generativa ed educativa con i propri genitori, e con il loro tessuto sociale e comunitario.
Spesso le famiglie nelle quali il bambino giunge qualche mese prima dell’inizio della scuola primaria sono ben disposte all’iscrizione, apportando come motivazione il fatto che il bambino lo desidera e, forse, anche loro. Non è questa la sede per approfondire questi temi delicati ed importanti, ma vien da sé, pur senza voler generalizzare, che un bambino fino a ieri abituato (addestrato?) a vivere in un contesto di pari, si veda quasi automaticamente collocato in una scuola, dove possono riproporsi tante dinamiche a cui è uso, piuttosto che impegnato nella difficile ma meravigliosa e vitale scoperta di una mamma e di un papà, e cioè di lanciarsi nell’avventura di essere figlio. E, per converso, si può ben comprendere come la tentazione del genitore sia auspicare per il proprio figlio il percorso più fluido, lineare e “normalizzante” possibile. Ma la vita è più ricca delle nostre semplificazioni, e la costruzione di un rapporto di figliolanza solido e fondativo per l’esperienza richiede tempo, e cura, educazione, intimità, predilezione e, in senso pieno, educazione.
In altri casi, invece, i genitori hanno fatto “carte false” (nel rispetto della legge, naturalmente) per riuscire a posticipare un passo che non ritenevano ancora bene e buono per il proprio figlio. Idoneità alla seconda saltando la classe prima, ad esempio con tutto l’impoverimento che questa scelta può comportare.
Storie differenti, che ci richiamano all’evidenza che ciò che fa discrimine non sarà quindi una lingua madre diversa dall’italiano, o possedere competenze linguistiche minime, o competenze socio-affettive, o avere un adeguato sviluppo cognitivo quanto, ben più radicalmente, fondare la propria esistenza su un’appartenenza, che il figlio impara, educa e scopre insieme ai suoi genitori.
Ben venga, dunque, la possibilità prevista dal documento ministeriale; essa rappresenta uno spiraglio che lascia penetrare la luce ad illuminare la storia proprio di quel bambino lì, affinché la si possa rispettare e valorizzare in ottica educativa personalizzata.
È buona cosa, inoltre, che la nota Miur sia sorta, almeno nelle spinte e nelle motivazioni, da più movimenti di famiglie che da tempo mettevano in evidenza l’improcrastinabilità di una reale personalizzazione almeno nel, se non del, sistema. Il casus belli da cui si è generato il processo è stata proprio una situazione specifica, ovvero un nome, un volto, una storia, una carne.
Fin qui le buone notizie.
Poi… Poi ci troviamo, ancora una volta, davanti ad un documento che, pur volendo guardare alle persone con encomiabile intento, non sa rinunciare ad uno sguardo classificatorio e statistico, ovvero quantitativo (“Allo stato attuale, è evidente che la discriminante tradizionale − alunni con disabilità / alunni senza disabilità − non è esaustiva rispetto alla realtà delle nostre classi in cui, tra l’altro, i bambini adottati provenienti da altri paesi rappresentano ormai una parte considerevole”);
Uno sguardo parcellizzante e fondato sul paradigma del bisogno (“In ogni classe, pertanto, possono esservi alunni che necessitano di una speciale attenzione [corsivo nel testo, nda] non solo per la presenza di deficit, ma anche per ragioni di svantaggio sociale, economico linguistico, culturale”); uno sguardo clinico più che educativo, che sente la necessità di ricorrere anche a specifiche professionalità esterne alla scuola, e infine uno sguardo gerarchico che, dichiarando di mettere al centro l’interesse superiore del minore, mette nei fatti al centro della decisione che riguarda il destino di un uomo, sia pure bambino (limitatamente alla sua declinazione scolastica, s’intende!) il collegio docenti che “solo alla conclusione dell’iter descritto, inerente casi eccezionali e debitamente documentati, e sempre in accordo con la famiglia, potrà assumere la decisione di posticipare l’iscrizione alla scuola primaria”.
Diamo all’Amministrazione l’attenuante che questa prassi fa riferimento alla casistica citata in apertura, nella quale il collegio dei docenti è ragionevolmente chiamato in causa in merito al prolungamento della frequenza presso la scuola dell’infanzia e si occupa, quindi, di bambini conosciuti. Ma, nei casi contemplati dalla nota, è possibile che il bambino per la scuola sia ancora un perfetto sconosciuto. Ha senso, quindi, che l’astratta valutazione della scuola abbia più cogenza dell’intenzionale e responsabile valutazione della famiglia del bambino?
Ci si consenta, in chiusura, una chiosa su un’informazione, tanto corretta quanto strumentale, inserita nel testo della nota. In essa si fa riferimento al fatto che, nel 2012, ben 3106 bambini provenienti dall’estero sono arrivati in Italia in adozione con un’età media di 5 anni e 11 mesi, età soglia proprio per il tema oggetto delle presenti considerazioni. L’indice di tendenza centrale dato dalla media, tuttavia, non può trascurare la deviazione standard che, rispetto alle età in questione, è data da una distribuzione che va dall’età media di quasi 15 anni dei bambini provenienti dalla Bielorussia a quella di un anno dei bambini provenienti dalla Corea del Sud, dal Mali, o dal Senegal.
Dopo l’anticipo per tutti, il posticipo per qualcuno. In tempo di scelte ed iscrizioni, teniamo aperta una domanda: e se non fosse l’età anagrafica l’indicatore più significativo per scrivere per la prima volta IO SONO A SCUOLA?