Ogni mattina milioni di persone si svegliano per compiere uno degli ultimi doveri laici superstiti della modernità“: frequentare una scuola, accompagnare i figli alla scuola. Si tratta di un fenomeno sociale con “imponente rilevanza antropologica”. Ce lo ricorda Adolfo Scotto di Luzio, docente di Storia della pedagogia nell’Università di Bergamo, nel suo ultimo libro La scuola che vorrei (Mondadori, 2013). 



Con questo suo nuovo volume lo studioso conduce il lettore a riflettere sullo stato della scuola italiana e dei sistemi scolastici occidentali, e nello stesso tempo a confrontarsi con una sua idea di scuola democratica che non è da contrapporre alla scuola d’élite. Infatti la “vera distinzione sul terreno dell’istruzione – precisa Di Luzio – non passa tra democrazia e antidemocrazia, ma tra scuola di massa, che precede di molto l’impianto del regime democratico, e scuola di cultura“. Una scuola non è democratica in quanto è di massa, ma in quanto riconoscendo il valore dell’uguaglianza sa “svelare i talenti di ognuno senza imporre a tutti lo stesso sigillo“; sa, in altre parole, valorizzare le diversità. 



La scuola di massa si configura come “un apparato di gestione della moltitudine con strumenti di tipo burocratico e amministrativo“, proteso alla “moltiplicazione degli accessi”, alla dilatazione dei tempi, all’ampliamento del catalogo delle educazioni. Vi è assente la cultura, bandita da saperi disparati, privi di un qualsiasi centro unificatore, senza radici nella realtà della vita, senza un riferimento alla verità, come scrive Habermas, più volte citato dal nostro autore. Le manca un linguaggio culturale capace di far cogliere l’esperienza dello stare insieme e del mettersi in ricerca in termini di “comune umanità”. 



La scuola di massa è, in sostanza, un circuito “a bassa intensità di contenuti culturali e di impegno individuale destinato a una massa di percettori di quello che possiamo definire una sorta di reddito minimo garantito applicato all’istruzione“. È un sistema “spersonalizzato”, nonostante la pretesa di trattare la persona di ogni singolo studente come un fine in se stesso; pretesa illusoria perché una scuola di tutti, “priva di qualsiasi riferimento a un’immagine collettiva del cambiamento, semplicemente non riesce ad assolvere nessuna reale funzione educativa e dunque nemmeno quella di promuovere i migliori“, ovvero riconoscere ed attestare una qualsiasi forma di  merito. 

L’esito è sotto gli occhi di tutti: la scuola si configura sempre più come spazio e tempo in cui gli insegnanti “in una forma fra l’altro largamente irriflessa”, concepiscono la propria funzione non come trasmissione del sapere ma come “gestione di una moltitudine secolarizzata”, grazie anche ad una vulgata della pedagogia come ideologia e tecnica a servizio della “nuova scuola dei poveri”. In questo contesto compito degli insegnanti diventa “classificare i propri studenti per definire trattamenti differenziati” e smaltire “l’eccedenza sociale”.

La crisi della scuola, grave e drammatica, non è causata tanto dalla mancanza di investimenti, ma da un”eccesso di attribuzioni”, cioè da un “sovraccarico di tutte quelle funzioni che, assegnate al contratto sociale, e assicurando a ogni individuo una prestazione minima, finiscono per liberare poi le interazioni tra i singoli di ogni responsabilità, che si tratti di genitori riguardo alla condotta dei propri figli o dell’insegnante rispetto all’indisponibilità dei propri allievi“. La questione non è dunque solo economica, ma antropologica. La scuola infatti elude sistematicamente la ricerca di un significato e giustifica il suo operato esclusivamente in nome della correttezza formale dei processi e dei protocolli. Basterebbe al riguardo, a mio parere, vedere cosa sta suscitando l’intervento ministeriale sugli alunni Bes (Bisogni educativi speciali). 

Come uscirne? Non certamente – sostiene Scotto di Luzio – privatizzando l’istruzione e neppure lasciando che le aule scolastiche restino luoghi in cui prevalga lo stile delle relazioni personali vissute dentro le mura di casa e basate sul “primato della negoziazione sull’applicazione delle regole, e la rimozione di qualsiasi riferimento a un’idea di giustizia per risolvere i conflitti“. Tantomeno, quindi, si supera la crisi appellandosi alla famiglia ridotta ad uno “spazio negoziale, microcontrattuale, fatto di scambi e di doni reciproci”, “uno spazio della vita privata senza giustizia”.

Diciamo dunque che se la scuola piange, la famiglia, “suo dirimpettaio”, non ride. Si trova infatti in una condizione pietosa che Scotto Di Luzio descrive con dei flash allarmanti: disaffiliazione, precarizzazione del legame coniugale, smottamenti dell’identità paterna, conflitti persistenti, consumi ed aspirazioni senza riferimenti al reale. Il disastro che essa provoca alla scuola si vede in particolare nel fallimento di quegli adolescenti per i quali il legame con i genitori non ha una forza strutturante.. 

La famiglia dunque vittima e carnefice della scuola in crisi? 

Sembra di sì. La famiglia viene sistematicamente spinta dalla scuola verso la “tecnicizzazione di routine pedagogiche un tempo popolari sulla base di una strumentazione prevalentemente pedagogico-psicologica“. A sua volta la scuola soffre lo smottamento prodottosi in questi anni nella famiglia e prima di tutto nell’identità paterna in termini di scomparsa dei programmi di studio e di enorme difficoltà ad “educare i giovani per mezzo della cultura“. 

Scotto di Luzio al riguardo mette in guardia contro chi contrappone due diverse idee della cultura. La prima: cultura “come totalità chiusa al servizio della coesione sociale”; la seconda: “come risposta personale a problemi che sorgono sul terreno di una tradizione ricevuta”. Idee distinte, non opposte. In questi ultimi anni non cogliendone la distinzione “ne è venuta fuori una scuola lacerata tra l’ossessione conservatrice dell’identità, intatta e intangibile, della nazione e la celebrazione acritica della diversità, […] una scuola del controllo per mezzo della tecnica pedagogica e dei nuovi strumenti della valutazione concepita in opposizione all’esperienza liberale della cultura come terreno dell’autocoscienza giovanile”. La scuola che avrebbe dovuto diventare di tutti, sembra non essere di nessuno. 

Quale è dunque la scuola che vorrebbe Scotto di Luzio? 

Una scuola con forti motivazioni in cui sia possibile educare, cioè presentare “un’idea dell’uomo in generale e riconoscere, con le radici profonde e vitali della nostra antropologia, il canone culturale che le interpreta“. Una scuola libera, oltre che dalla burocrazia, anche dalla tirannia dei giovani e dalle pedagogie che la giustificano.

La scuola per cui vale la pena alzarsi dal letto ogni mattina è una scuola in cui si possa e si debba imparare a cogliere e discriminare i significati del mondo. È la scuola del “buon gusto”, del giudizio, cioè di un “pensiero che ci permette di scegliere, di distinguere tra ciò che è bello ed è meritevole della nostra ammirazione e ciò che deve essere senz’altro rifiutato. Tra ciò che è giusto sentire e ciò che invece è meschino e degradante”. È la scuola della cultura, che è “deposito naturale di questa possibilità di scelta […], base di esercizio della facoltà individuale di chiarificare e distinguere i significati“. È una scuola, in cui la domanda individuale (“Quale sforzo sono disposto a fare”), nella relazione educativa e in quella scolastica, in modo particolare, è in grado di prevedere una risposta dotata di senso in quanto è collegata all’altra domanda: “Quale sforzo mi si chiede di fare”. Una scuola in cui deve accadere un’ “educazione, cioè, un apprendimento di sé attraverso le richieste degli altri“.

Questa è la scuola pubblica che vorrebbe Scotto di Luzio. Ed è la scuola che vorrei anch’io e, spero, ogni lettore. 

Su come costruire una simile scuola l’autore dice poco, accenna qua e là. Preferisce offrirci un ampio panorama della pars destruens, ma lascia  il lettore in una valle stretta, in cui viene segnalata la meta ma non la strada. Forse anche per questo nel libro certi argomenti vengono appena accennati e a certe domande non c’è risposta. Per esempio, che cosa l’autore intende per “scuola pubblica”? Il volume denuncia il privatismo nei confronti della scuola; parla di “una base privatistica” del sistema scolastico, invaso negli ultimi venti anni da “nuovi potenti attori legati alla sfera dell’economia e dei suoi interessi“, per cui la scuola “perde completamente la capacità di fornire modelli generali di identificazione”. Domanda: nel “privatismo” sono da annoverare anche le scuole paritarie? “Pubblico” coincide forse con “statale”?

Non c’è risposta. All’autore non interessa riproporre la contrapposizione scuola pubblica-scuola privata, che definisce “punto irrisolto” della disputa sulla laicità dell’istruzione iniziata in Italia fin dalla Costituente. “Almeno sul terreno scolastico − nota l’autore − la nostra Costituzione non è certo quella carta dei sogni che si pretende. È, semmai, il documento di una cultura costituzionale molto arretrata“. Non gli interessa, almeno in questo volume, neppure affrontare il tema della libertà di educazione come diritto delle famiglie e degli insegnanti. Forse per questo ignora il discorso sull’autonomia scolastica, anche quando sintetizza mirabilmente la storia e il dibattito relativi ai sistemi scolastici degli Stati Uniti e dell’Inghilterra. 

Ancora più forti le perplessità sul tema della personalizzazione come fattore di indebolimento dello statuto pubblico della scuola; quasi un assalto, una specie di espropriazione “privatistica” al “supermercato della scuola”. Personalizzare tuttavia, almeno nella mia storia di insegnante e dirigente scolastico, non è impoverire il pubblico, ma arricchire ciò che è comune con il riconoscimento e la valorizzazione dei talenti di ogni persona. È vero che la personalizzazione può essere pensata e svolta come “una tecnica impiegata in modo simbolico per fornire agli insegnanti, agli studenti e alle loro famiglie la giustificazione di un agire che non è in grado di fare appello a nient’altro se non alle sue procedure interne, alle sue routine appunto tecnicizzate“. Ma questa non è l’autentica personalizzazione, quella di cui parlano altri eccellenti autori italiani e stranieri. 

Personalizzare è agire e pensare da persona, compartecipare responsabilmente alla costruzione del bene comune in classe e nella scuola, vera comunità di apprendimento. Non è semplicemente “una calorosa sollecitudine per la persona”. Almeno per quei docenti nella scuola pubblica (statale e paritaria) che entrano in classe per lavorare con gli alunni, non semplicemente per l’alunno. Mi riferisco agli insegnanti e a certe loro associazioni impegnati a (far) riconoscere “alla scuola il canone; alla vita di fuori, tutto quello che ne tenta le strutture portanti“, come conclude lo stesso  Scotto di Luzio. 

Questo è possibile. Anzi, esiste già in alcune istituti e zone di Italia. Può diventare esperienza di tutti  senza che nessuno finisca in pasto né al progressismo della pedagogia come ideologia e tecnica dei poveri, né al pessimismo catastrofico, né alla rassegnazione in attesa di pensionamento. La scuola non è solo una vicenda politica ed intellettuale: è un affare di popolo a cui interessa  educare al giudizio e al gusto i suoi figli. In fondo lo testimoniano e lo desiderano, magari inconsciamente, quasi tutti quei milioni che mattino si dirigono verso la scuola.