Provo simpatia personale e ammirazione per il nuovo ministro dell’Istruzione Stefania Giannini. La ammiro come studiosa e ho avuto modo di vedere alla prova le sua qualità di leadership quando nella presidenza della Crui si occupava di internazionalizzazione. Ma in realtà Stefania Giannini, a differenza dei due Rettori che l’hanno preceduta, è un politico vero, essendo Segretaria di un importante partito che sostiene la maggioranza e avendo scelto la politica come vocazione civile.
La sua prima intervista su Repubblica, aperta, fresca, innovativa (in cui con semplicità e chiarezza ha parlato di merito, qualità e valorizzazione professionale degli insegnanti), è stata subito seguita da un articolo sullo stesso giornale che la metteva in guardia dal toccare alcuni temi sensibili al mostro sacro del corporativismo, dell’appiattimento, e della omologazione e della cancellazione delle differenze scambiata per uguaglianza.
Un autorevole direttore del Corriere, molti anni fa, mi disse con malcelata ironia: “Noi abbiamo derubricato la scuola a questione sindacale”. Insomma ci si salva l’anima con le acute analisi liberal in prima pagina grazie alle grandi firme di Panebianco e Galli della Loggia, ma in cronaca si strizza l’occhio alle più conservative pulsioni corporative.
D’altro canto tutti “teniamo famiglia” e chi non ha tra familiari e conoscenti un insegnante che aspetta di entrare in ruolo o (dopo molti anni) auspica un’ennesima ope legis?
L’intervista che sabato 8 marzo, festa delle donne, il Corriere pubblica, con richiamo in prima, non fa eccezione alla linea ormai tradizionale del maggiore quotidiano italiano.
Paolo Conti, su 9 domande, riesce a dedicarne la metà a lisciare il pelo ai corporativismi ai luoghi comuni. Beninteso, il ministro se la cava benissimo e nonostante le domande non sempre felici l’intervista consente di apprezzarne programmi innovativi e volontà di cambiamento.
Ma il giornalista del Corriere non le chiede: a quando la valutazione e l’aumento di stipendio agli insegnati migliori e che lavorano di più (oggi retribuiti come i fannulloni)? Né le chiede: a che punto siamo con le concrete risposte sui temi scolastici (appunto, premialità per gli insegnanti e programma di implementazione della qualità delle scuole che avevano ottenuto risultati insoddisfacenti ai test Invalsi) alla lettera che il 4 novembre 2011 la Commissione Europea ha inviato al nostro Governo.
Non chiede (e sarebbe stata una domanda di grande attualità): perché in Lombardia, in omaggio a pulsioni corporative e dopo che tantissime scuole lombarde sono prive di presidi, a causa del famoso concorso bloccato, si è bloccato anche il secondo concorso, con l’apparente nobile obiettivo di non danneggiare studenti e famiglie, rinunciando alla continuità didattica, ma con il malcelato scopo di creare una nuova corsia preferenziale che faccia diventare ope legis, presidi gli attuali vicari?
Non chiede: perché dal 1999 (legge sull’autonomia) non siamo riusciti a far dimagrire il ministero di Viale Trastevere, vero e proprio elefante burocratico, e perché non diamo pienamente autonomia alle scuole?
Non chiede: perché nel decreto sulla riorganizzazione del ministero (che fortunatamente Stefania Giannini può ancora modificare), per le pur giuste esigenze della spending rewiew, si è cancellata la importantissima direzione generale sull’istruzione tecnica, e si è conservata in vita la inutile dg per il “personale di diretta collaborazione”?
Queste sarebbero state domande adatte a interrogarsi sulla realtà concreta della scuola, sulla sua dimensione culturale, sulla sua governance, sul rapporto scuola-lavoro.
No, Paolo Conti si fa efficace interprete della “pancia corporativa”. Quella per cui la scuola non è un servizio pubblico che deve assicurare buona istruzione ai nostri figli ma una sorta di “welfare secondario” che deve assicurare stabilizzazione ai precari e lavoro ai disoccupati intellettuali.
E Conti chiede conto al ministro non dello statalismo, del corporativismo, dell’appiattimento retributivo, ma si concentra su domande “corporative”. Dimostrando che la scuola sui grandi media non è ancora diventata (come avviene sul Times, su Le Monde e su El Pais) una questione nazionale che riguarda il futuro dei nostri figli, ma una questione sindacale. Chiede se gli scatti di anzianità (unico modo per elevare lo stipendio avendo rinunciato a premiare il merito) “sono in pericolo”. Chiede (in un paese dove la libertà di scelta delle famiglie è poco rispettata e la scuola paritaria è di gran lunga – purtroppo – poco presente rispetto alla media europee), perché stanziando una modestissima cifra per far risparmiare lo stato “si danneggiano le scuole pubbliche”.
La ministra Giannini, con fair-play, fa al giornalista una velata lezione di etimologia spiegando la differenza tra pubblico e statale.
Infine non manca la banale domanda (su imbeccata di Grillo) sui bambini di Siracusa che cantano la canzoncina a Renzi.
A domande banali e vittime dei più diffusi luoghi comuni, Stefania Giannini offre risposte intelligenti e innovative, in linea con una tradizione liberal e con una visone aperta della scuola.
Beninteso. Chi non avverte il dramma personale di supplenti a vita, di precari che giustamente aspirano a entrare in ruolo? Per loro vanno evidentemente trovate soluzioni giuste. Ma si può precludere a motivati e competenti giovani aspiranti insegnanti (che si laureano o che già frequentano il famoso Tfa) la possibilità di insegnare perché devono mettersi in coda per 10 anni? Si può impedire ai nostri figli di avere insegnanti e presidi giovani e preparati, in nome dell’esigenza di risolvere le pendenze del passato?
La scuola non è solo (né soprattutto) una sorta di serbatoio di disoccupati intellettuali. È soprattutto un servizio pubblico per i cittadini.
Ma perché sia fino in fondo un servizio pubblico, bisogna che la pubblica opinione sulla scuola cresca. E la politica affermi la sua visione lungimirante anche con scelte apparentemente impopolari ma che nel lungo periodo mostreranno i loro effetti (come è avvenuto in tutti i paesi in cui la scuola è stata “deperonizzata”).
Diceva giustamente Claude Allegre, indimenticabile ministro francese dell’istruzione, che per innovare la scuola bisognava battere la perversa alleanza tra mammuth (la burocrazia) e dinosauro (il corporativismo).
Quando la burocrazia (è successo per il caso della sospensiva del concorso per i presidi lombardi) si fa dettare l’agenda dal corporativismo, la nuova Italia che Renzi si è impegnato a costruire si allontana.