In attesa del giorno fatidico in cui sarà comunicato il piano nazionale per l’edilizia scolastica (promessi 2miliardi di euro) sarebbe forse il caso, dopo l’enfasi sugli insegnanti (Renzi: siete indispensabili!; Giannini: da premiare secondo il merito!), di non mettere una pietra tombale su un tema, inerente, che richiede più attenzione a quello che già si muove nella società che non complicate manovre futuribili. Ci riferiamo alla formazione in servizio dei docenti, la vera e unica misura che farebbe fare un salto di qualità al dibattito sulla scuola. 



Bene ha fatto il Cidi (Centro iniziativa democratica insegnanti) a lanciare la proposta di costruire un sistema nazionale di formazione in servizio per i docenti. Il Cidi propone di legare la formazione in servizio all’autonomia di ricerca e sperimentazione delle scuole, cui dovrebbero essere assegnati direttamente i fondi necessari per la realizzazione dell’iniziativa (complessivamente 100 milioni). Bene il Cidi, ma si può pensare ad una misura ancora più organica e strutturale. 



Normalmente la formazione in servizio è affidata dal Miur all’Indire, il centro nazionale che si occupa di documentazione, innovazione e ricerca educativa, e all’Invalsi, l’istituto nazionale di valutazione. L’Indire è impegnata sui due versanti dell’introduzione delle tecnologie digitali in classe (progetto Scuola digitale) e della sperimentazione di approcci didattici innovativi in ambito disciplinare (Pon – Programma operativo nazionale 2007-2013). 

L’Invalsi si occupa di formazione dei docenti, dal punto di vista della preparazione e valutazione dei processi di apprendimento. 



Dal 2013 Indire e Invalsi sono a completo carico del Miur che sostiene gli istituti tramite il Fondo Ordinario per il finanziamento degli Enti e istituzioni di ricerca (Foe). 

Soppressa come Ansas, l’Indire ha ripreso vita dal 1° settembre 2012 e spende poco meno di 8milioni annui per la gestione del personale interno; inoltre riceve dal Foe circa 8milioni e mezzo per il funzionamento ordinario. L’Invalsi viaggia sui circa 18milioni di euro annui (bilancio di previsione 2012). 

Il ministro Carrozza aveva in parte sparigliato questa logica, per cui il Miur forma i docenti tramite i propri enti. Lo aveva fatto mediante l’emanazione del decreto 821 dello scorso ottobre (ex 440), che assegna finanziamenti direttamente alle scuole, tramite gli uffici regionali e pesca nel Fondo per il funzionamento delle istituzioni scolastiche. Meccanismi ripresi anche dalla legge “L’istruzione riparte” (128/2013) che prevede, tra le varie azioni, che la formazione dei docenti avvenga anche attraverso convenzioni con le università statali e non statali e con associazioni professionali di docenti accreditate dal Miur. 

La situazione, tuttavia, non è affatto rosea come sembra: primo perché il Fondo per il funzionamento delle istituzioni scolastiche è continuamente taglieggiato dalle manovre di reperimento di risorse per operare rammendi di vario genere (per es. gli scatti di anzianità); secondo, perché la formazione dal punto di vista dei contenuti è rigidamente vincolata dalla normativa ministeriale ad obiettivi indicati centralmente che, ecco il circolo vizioso, rientrano grosso modo in quelli dell’Indire e dell’Invalsi.

Non solo i fondi sono scarsi, sebbene la decretazione applicativa della legge Carrozza sia in pieno vigore, come dimostra il decreto del 7 febbraio sull’apertura delle scuole e prevenzione della dispersione scolastica; di più, la formazione è orientata, ovvero non pienamente libera. Prevale ovunque una curvatura sul sapere di stampo ministeriale. Vengono emanate Indicazioni nazionali o Linee guida di vario genere? Bene, la formazione sostenuta dal Miur è orientata a far digerire Indicazioni e Linee guida, senza che i docenti possano interrogarsi sulla loro necessità o magari sul grado di effettiva partecipazione che la scuola reale può avere avuto nella stesura dei documenti. La tal legge prevede l’insegnamento di materie non linguistiche in lingua straniera? Ottimo: il Miur ha una sua linea prevalente, consistente nella diffusione del metodo Clil, senza che magari ci si interroghi se è l’unico, il più adeguato, il più rispondente alle conoscenze e competenze di tanti bravi docenti. 

Per finire con l’obiettivo dell’aumento delle competenze relative all’educazione all’affettività, al rispetto delle diversità e delle pari opportunità di genere e al superamento degli stereotipi di genere, contenuto nella citata legge Carrozza (128/2013). 

Il limite di una formazione concepita in questo modo è il suo carattere condizionato dall’emergenza, che corrisponde molto bene ad una figura di insegnante come colui che è capace di disinnescare situazioni intricate, di carattere familiare o cognitivo.

La formazione che vorremmo, per la quale non è disprezzabile l’idea di un sistema nazionale, è molto più legata alla struttura stessa dell’insegnamento e dell’insegnante che anzitutto dovrebbe trovare (o ritrovare) la motivazione per la quale ha scelto la professione docente nella cultura cui sente di appartenere. La cultura intesa come visione della vita, del mondo e della storia: un’origine dalla quale attinge i significati del suo agire anche tra gli alunni.

Ancorare dunque la formazione alla cultura, che è libera e da approfondire nel confronto con la realtà di una scuola da inventare ogni giorno. Questo è il compito che dovrebbe impegnare il nuovo ministro. E renderla vasta questa formazione, connessa allo sviluppo professionale e anche valutabile, se vogliamo parlarne sul serio. Da svolgersi nella scuola, nel contesto di questo ambiente e non separata da esso. Ma per favore libera, cioè pluralistica e finalmente utile. 

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