Un test sulle competenze generaliste dei laureandi italiani. È Teco, curato e condotto dall’Anvur, l’agenzia nazionale di valutazione dell’università e della ricerca, i cui dati sono stati presentati ieri a Roma. La sperimentazione è stata condotta su 6mila studenti universitari del terzo e quarto anno di università, nella fase cioè di passaggio tra la laurea triennale e quella magistrale, appartenenti a 12 atenei italiani, da Milano a Messina. Un test “gemello” (il Cla+) adottato dai college americani ha fornito a Teco sia un target di riferimento, sia la possibilità di comparare i risultati raggiunti. Ilsussidiario.net ne ha parlato con Fiorella Kostoris, economista, membro del consiglio direttivo dell’Anvur e coordinatrice della sperimentazione.
Teco misura per la prima volta le competenze generaliste dei nostri studenti universitari. Dove starebbe l’utilità e la novità della sperimentazione?
È nuovo innazitutto perché misura le competenze ex post, i risultati dell’apprendimento, mentre siamo soliti affrontare i problemi nei termini di requisiti per una offerta formativa a venire. In secondo luogo perché misura le competenze di natura generalista degli studenti universitari (invece che della popolazione adulta).
È un test di cultura generale?
No. Le competenze generaliste non sono la cultura generale. Sono le competenze che ritroviamo in tanti campi e che non dipendono da quello che si è studiato, ma da “come” lo si è fatto. Non sono capacità specifiche, ma orizzontali: aver imparato a leggere con spirito critico, risolvere i problemi, essere in grado di prendere delle decisioni.
In pratica gli studenti che cosa dovevano fare?
Misurarsi con la lettura e l’analisi critica di testi sia letterari, sia di tipo quantitativo; dedurne decisioni coerenti e comunicarne il contenuto per iscritto.
Perché questa scelta?
Perché si tratta delle competenze che oggi sono fondamentali per un mercato del lavoro dovre il futuro è incerto, dove l’occupazione è drammaticamente bassa ma soprattutto dove l’occupabilità futura dipende da capacità non specifiche ma appunto trasversali, tali da garantire flessibilità, adattamento a contesti mutevoli, apprendimento continuo.
Il rapporto è confrontabile con quanto accade negli altri paesi?
Abbiamo testato 6mila studenti di 12 università italiane mentre gli Stati Uniti facevano lo stesso, sulla base di un test gemello, su 5mila studenti dei college americani. E risulta che i nostri risultati medi sono assolutamente confrontabili a quelli amercani.
E che cosa si può dire delle “competenze” dei nostri studenti?
Mentre nella capacità di lettura, di argomentazione critica e di comunicazione linguistica in taluni casi siamo superiori agli Usa, risultiamo complessivamente meno forti nella ragionamento scientifico quantitativo e – soprattutto – mostriamo un basso grado di correlazione tra la componente individuale di tipo letterario e quella di tipo scientifico quantitativo. In Italia uno studente è normalmente più forte o in un campo o nell’altro, raramente in tutt’e due, mentre all’estero osserviamo una minore dissociazione tra le due componenti, umanistica e scientifica.
Ci sono facoltà italiane che presentano un livello più omogeneo tra queste competenze?
I gruppi disciplinari con i test migliori da questo punto di vista sono Medicina, Matematica, Fisica, Statistica e Psicologia. Le prime due hanno in realtà una sensibile prevalenza nella parte scientifico-quantitativa, mentre Psicologia è uno dei pochi casi in cui le due “logiche” sono più in equilibrio e meno dissociate. Dipende verosimilmente dal fatto che i docenti di psicologia hanno una maggiore consapevolezza dell’importanza delle competenze generaliste e insieme specialistiche.
Quali indicazioni di governance si ricavano dalla sperimentazione Teco?
L’università dovrebbe sentirsi chiamata a compensare le carenze iniziali. In realtà il decreto 270 del 2004 richiede che al loro ingresso in università gli studenti siano sottoposti a una verifica delle loro competenze iniziali, secondo modalità stabilite dai regolamenti d’ateneo. La norma prevede che nel primo anno i limiti formativi degli studenti siano colmati con particolari corsi aggiuntivi. Tuttavia è un decreto che rimane ampiamente disapplicato.
Come si spiega secondo lei la separazione tra le due “culture” nei nostri studenti?
Nella tradizione culturale italiana c’è l’idea che la storia e le discipline umanistiche abbiano una dignità superiore alle discipline scientifiche. I due “gruppi” di studenti andrebbero invece messi in condizione di occuparsi, per un dato tempo, di ciò che caratterizza ed esprime il “bernoccolo” dell’altra parte. Oggi leggendo il New York Times capita di trovare un grafico o una tabella all’interno del pezzo. Perché uno studente dovrebbe rinunciare a capirne una parte?
E utilizzare il quinto anno delle superiori in chiave propedeutica all’università?
Se si utilizzassero gli anni della scuola secondaria per potenziare queste competenze di ordine generalista sarebbe una cosa positiva, però non vorrei collegare questo fatto alla riduzione temporale della scuola secondaria che è un problema aperto in sé, e nel quale ora non vorrrei entrare.
Qual è secondo lei la strada maestra per migliorare le competenze generaliste?
Innanzitutto, eviterei di fare dei corsi dedicati proprio a queste competenze. Per maturarle si dovrebbe invece studiare in un altro modo. Per esempio, anziché apprendere passivamente il classico libro di testo adottato perché scritto dal docente, sarebbe più formativo avere a disposizione una reading list, prendere gli spunti da diversi autori, rielaborare fonti diverse, utilizzando linguaggi e logiche diversi… È così che si educa un pensiero più selettivo, critico e maturo.
(Federico Ferraù)