L’ultimo annuario statistico NoiItalia, presentato nel dicembre 2013, evidenzia dati non lusinghieri per il nostro Paese per quanto riguarda l’istruzione e la formazione, considerata la loro particolare importanza ai fini della valorizzazione del capitale umano e del pieno e consapevole esercizio dei diritti di cittadinanza, riferendosi tra l’altro a indicatori adottati nella Strategia di Lisbona, e successivamente ribaditi in “Europa 2020”, per la definizione di obiettivi strategici indispensabili alla realizzazione di una crescita economica sostenibile, per lo sviluppo del mercato del lavoro e per una maggiore coesione sociale.



In Italia l’incidenza della spesa pubblica in istruzione e formazione sul prodotto interno lordo (Pil) è pari al 4,5% ed è inferiore rispetto al valore medio dell’Ue27 (5,5%) e a quello di molti paesi dell’Ue15, ma superiore a quello della Germania. Le regioni italiane mostrano comportamenti distanti tra loro: le regioni del Mezzogiorno, caratterizzate da una maggiore presenza di popolazione in età scolare, sono quelle che investono relativamente di più in questo settore, con quote pari a circa il 7% del Pil.



Tra le aree del Centro-Nord, le province autonome di Trento e di Bolzano, con circa il 5% del Pil mostrano valori più alti nell’ambito geografico di appartenenza. Le spese più basse, inferiori al 3% del Pil, sono sostenute dalle regioni Lombardia, Emila-Romagna e Veneto. 

Nel periodo 2004-2011 il livello di istruzione della popolazione adulta – calcolato come il rapporto tra la popolazione tra i 25 e i 64 anni che non ha nessun titolo di studio ovvero possiede la licenza elementare oppure è in possesso di un diploma di scuola secondaria di primo grado, e il totale della popolazione di età corrispondente – mostra un progressivo miglioramento, pari a circa un punto percentuale all’anno in ogni ambito territoriale, anche se con diverse velocità: di 6,1 punti percentuali nel Mezzogiorno e di 9,6 punti nel Nord-Est.



Nella graduatoria dell’Unione europea l’Italia occupa la quarta peggiore posizione, dopo Spagna, Portogallo e Malta e mostra un valore ben al di sopra della media Ue27 (26,6%). Molti paesi dell’Est Europa si distinguono per bassi valori dell’indicatore, segnalando quindi un grado di istruzione mediamente più elevato, mentre valori più alti si rilevano nei paesi dell’area mediterranea. 

La provincia autonoma di Trento, il Lazio e l’Umbria presentano i valori più bassi dell’indicatore e il Centro nel suo complesso si conferma la ripartizione con il valore più contenuto (38,5%). Le regioni in cui l’indicatore si attesta sui livelli peggiori, superiori al 50%, sono Puglia, Sardegna, Sicilia e Campania. 

Il tasso di abbandono scolastico, calcolato come percentuale della popolazione in età 18-24 anni che, dopo aver conseguito la licenza media non ha concluso un corso di formazione professionale di almeno 2 anni e non frequenta corsi scolastici o altre attività formative, pone l’Italia tra i peggiori cinque paesi d’Europa (su 28) con il 18,2 % degli alunni che lasciano i banchi troppo contro la media Ue del 13,5 %. Siamo molto lontani dall’obiettivo di Lisbona 2010, riproposto nell’ambito della Strategia Europa, di ridurre del 10% la quota di giovani che lasciano la scuola senza essere in possesso di un adeguato titolo di studio. 

In Europa i paesi più virtuosi sono Polonia, Slovacchia, Repubblica Ceca e Slovenia, anche Germania e Francia si trovano in buona posizione, con valori di poco superiori al 10%.

In Italia nonostante i progressi registrati negli anni più recenti il fenomeno degli early school leavers coinvolge ancora il 21,2% dei giovani meridionali ed il 16,0% dei coetanei del Centro-Nord. L’incidenza peggiore si ha in Sardegna, in Sicilia e Campania, dove un giovane su quattro non porta a termine un percorso scolastico/formativo dopo la licenza media. I risultati migliori si hanno nelle regioni dell’Italia centrale, mentre l’obiettivo della riduzione al 10% è raggiunto dalla provincia autonoma di Trento.

Il tasso di partecipazione al sistema di istruzione e formazione, misurato rapportando gli iscritti per le due classi di età (15-19enni e 20-29enni) nei vari ordini scolastici alla popolazione residente delle corrispondenti fasce di età, evidenzia per l’Italia un consistente divario rispetto ai paesi Ue, attestandosi all’83,3% per i giovani in età 15-19 anni e al 21,5% per  20-29enni, a fronte di un tasso medio europeo rispettivamente dell’86,7% e 27,4%. Nella generalità dei paesi europei considerati, quasi 9 studenti 15-19enni su 10 partecipano al sistema di istruzione. La più elevata partecipazione alla formazione terziaria si rileva nei paesi scandinavi (circa un giovane su 3), mentre al di sotto dei valori medi europei oltre l’Italia si collocano la Francia e il Regno Unito.

Per quanto riguarda le regioni italiane la partecipazione al sistema formativo risulta abbastanza  omogenea in tutte le ripartizioni con valori leggermente superiori nel Centro. Si evidenzia che i tassi regionali di partecipazione dei 20-29enni possono risentire del fenomeno della mobilità degli studenti universitari, che con maggior frequenza si iscrivono in atenei di regioni diverse da quelle di residenza.

La quota di giovani con istruzione universitaria, definita come la percentuale della popolazione tra i 30 e i 34 anni che ha conseguito un titolo di studio universitario, è tra gli indicatori più importanti individuati dalla Commissione europea nella Strategia Europa 2020 con un target da raggiungere pari ad almeno il 40%. Allo stato i paesi del Nord Europa insieme a Cipro, Francia e Spagna hanno già raggiunto il target fissato. 

Al contrario in Italia si registrano valori pari a circa la metà dell’obiettivo, con un incremento di soli 4,7 punti percentuali tra il 2004 e il 2011, per cui il nostro paese si colloca all’ultima posizione nella graduatoria dell’Unione, dopo Romania e Malta, mostrando un valore dell’indicatore inferiore di oltre 14 punti alla media Ue27 (34,6%). Le regioni italiane presentano valori e andamenti dell’indicatore piuttosto eterogenei. Nel Centro-Nord, ad eccezione della Valle d’Aosta, l’indicatore si colloca in tutte le regioni al di sopra della media e nella provincia autonoma di Trento assume il valore più alto a livello nazionale (26,7 %), registrando anche gli incrementi più significativi negli ultimi anni. Nelle regioni meridionali  risultati superiori alla media nazionale si registrano in Abruzzo e Molise mentre in Campania, Puglia e Sicilia l’indicatore assume valori inferiori al 16%. 

Neet: Not in Education, Employment or Training – In Italia oltre 2 milioni di giovani pari a circa il 23% della popolazione tra i 15 ed i 29 anni risulta fuori dal circuito formativo e lavorativo non essendo né occupati e né inseriti in un qualsiasi percorso di istruzione o formazione formale o informale. L’indicatore è particolarmente importante perché in questo gruppo di giovani il prolungato allontanamento dal mercato del lavoro o dal sistema formativo può comportare il rischio di una maggiore difficoltà di reinserimento. La quota di Neet è cresciuta notevolmente durante la fase ciclica negativa ed è più elevata tra le donne di circa 5 punti percentuali rispetto agli uomini, in quest’ultimo caso in linea con la media europea. 

L’indicatore Neet del nostro paese è superiore a quella della media europea (15,4%) con un’incidenza significativamente più alta rispetto alla Germania, la Francia ed il Regno Unito e più simile a quella della Spagna. I divari riflettono in primo luogo il minore inserimento dei giovani italiani nell’occupazione e, in secondo luogo, la loro maggiore presenza nella condizione di inattività rispetto ai giovani degli altri paesi europei. Inoltre, l’indicatore evidenzia la minore capacità del mercato del lavoro italiano di includere i giovani, con il conseguente rischio che lo stato di inattività si trasformi in una condizione permanente. Per quanto riguarda le regioni italiane, mentre nel biennio precedente la crescita dell’area dei Neet aveva coinvolto principalmente i giovani del Centro-Nord, in particolare del Nord-Est, attualmente l’incremento dei giovani che non lavorano e non studiano riguarda quasi esclusivamente il Mezzogiorno. Campania e Sicilia sono le regioni con le quote più elevate, superiori al 35%, seguite da Calabria e Puglia, con valori prossimi al 30%, senza differenze significative di genere.

Anche la popolazione adulta (25-64 anni) che partecipa all’apprendimento permanente nel nostro paese registra valori percentuali di poco superiori al 5% ben lontano dall’obiettivo del 12,5% posto dalla strategia di Lisbona entro il 2010; risultati analoghi a quelli italiani sono registrati dalla Franca. Il valore medio dell’indicatore nell’Ue27 si attesta all’8,9%. I risultati migliori emergono nei paesi scandinavi (Danimarca, Svezia, Finlandia) e nel Regno Unito nei quali l’obiettivo di Lisbona è ampiamente superato. Le donne partecipano in misura maggiore degli uomini alle attività formative in quasi tutti i paesi Ue, tra cui l’Italia. La più bassa incidenza in Italia rispetto alla media europea è dovuta prevalentemente alla scarsa partecipazione alle attività formative “non formali”, quali i corsi di formazione aziendale e altre attività di apprendimento professionale o personale. Più simili risultano invece le quote di individui (soprattutto quelli della classe di età 25-34 anni) impegnati in attività formali. A livello regionale non si registrano sostanziali differenze, tuttavia la Provincia autonoma di Trento mostra la migliore percentuale (8,3%) di partecipazione della popolazione adulta alle attività formative, probabilmente dovuto alla consistente presenza del sistema della formazione professionale provinciale in parallelo al sistema dell’istruzione secondaria.

L’analisi degli indicatori esaminati evidenzia il forte ritardo dell’Italia rispetto alla maggior parte dei paesi europei evidenziando un gap strutturale nello sviluppo del capitale umano, unico investimento strategico per immaginare una qualsiasi crescita economica sostenibile, incardinata nello sviluppo del mercato del lavoro e in una maggiore coesione sociale. L’allarme più forte proviene sicuramente dalla “scelta” di molti giovani di non proseguire gli studi e dai Neet fuori dal circuito formativo e lavorativo, che più di altre situazioni rappresentano un indice di disagio sociale e di esclusione quasi senza ritorno, in particolare nelle aree meno sviluppate del paese. La situazione meriterebbe scelte politiche coraggiose e investimenti in tutta la filiera, orizzontale e verticale, della conoscenza molto più consistenti valorizzando appieno l’autonomia delle istituzioni formative, finalmente chiamate a rendincontare l’apprendimento in termini di effettiva possibilità per ognuno di accedere con competenza al mercato del lavoro e di continuare ad imparare per tutta la vita. 

Un aspetto strategico riguarda l’orientamento inteso come “insieme di attività volte a sostenere le persone nel formulare decisioni e ad attuarle in merito alla loro vita, sul piano educativo, professionale e personale”. Quindi la necessità di un sistema formativo che sappia proporre attività di servizio e di sostegno al processo di auto-orientamento sostenendo azioni mirate alla costruzione di competenze orientative specifiche di sviluppo. 

A titolo di esempio si citano: il counselling orientativo consistente in azioni professionali di aiuto al singolo per sostenerlo con materiali e indicazioni operative nell’elaborazione e nella pianificazione della scelta del proprio futuro; il counselling psicologico consistente in azioni professionali di sostegno al singolo, intese ad aiutarlo a fronteggiare stati di disagio personale che ostacolano la possibilità di scelta del proprio futuro; il bilancio di competenze consistente in azioni professionali di servizio molto specialistico rivolte al singolo e tese a guidarlo nella scoperta e valorizzazione di tutte le competenze acquisite nelle esperienze pregresse di studio di lavoro di vita e nella elaborazione di un progetto finalizzato al miglioramento della sua posizione; l’outplacement consistente in azioni di facilitazione nel passaggio da un lavoro ad un altro, simile o diverso da quello precedente. 

In conclusione è necessario che la filiera della conoscenza sia funzionalmente orientata allo sviluppo di competenze per il pieno e consapevole esercizio dei diritti di cittadinanza del capitale umano in modo da essere accolto nel mondo del lavoro e di esserne capace di dominarlo.

Pertanto, la partecipazione dei giovani al sistema di formazione anche dopo il termine del periodo di istruzione obbligatoria è considerato un fattore essenziale per garantire l’ampliamento delle conoscenze e delle competenze, preparandoli a una più consapevole partecipazione sociale e facilitando l’apprendimento continuo anche nell’ambito della vita lavorativa. Infatti, l’aggiornamento delle competenze individuali durante tutto l’arco della vita rappresenta un requisito essenziale per restare integrati nel mercato del lavoro e costituisce anche un elemento chiave nella lotta contro l’esclusione sociale.

L’obiettivo di avere una maggiore partecipazione degli adulti all’apprendimento permanente è attualmente inserito nel quadro strategico per la cooperazione europea nel settore dell’istruzione e della formazione (ET2020).

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