Con cadenza inesorabile è arrivato anche quest’anno il rapporto sull’acquisto e la lettura di libri in Italia. Il rapporto è stato commissionato dal Centro per il libro e la lettura (Cepell), stilato su un campione di 9mila famiglie.
Come da anni accade, i dati non sono positivi ed il calo dei lettori e degli acquirenti di libri riguarda tutte le fasce d’età. E ci si potrebbe fermare qui. Ma si vuole (ed è legittima curiosità per gli addetti del settore) scandagliare i dati, disaggregarli per conoscere i dettagli di tale disaffezione al libro cartaceo: il buco nero è più profondo al nord o al sud, tra gli uomini o le donne, tra i giovani o gli adulti, e via discorrendo.
Tuttavia l’analisi dei dati può rischiare di lasciare tutto allo status quo se non spinge ad individuare le cause prime di una disaffezione alle pagine stampate e, quindi, mettersi in azione per rimuovere ostacoli all’approccio amoroso ai libri e promuovere una curiosità ed un interesse agli stessi. Non basta certo liquidare la questione addossando la responsabilità alla crisi economica. Certo, in mancanza di liquidità si eliminano i beni voluttuari (il parrucchiere, un paio di scarpe…), ma possiamo annoverare con tranquillità i libri tra i beni voluttuari? Personalmente credo proprio di no. La domanda che sta a monte del problema è quanto valore si attribuisca alla lettura nello sviluppo cognitivo ed esperienziale della persona.
E la stortura parte dalla scuola. Dagli anni settanta in poi (ora il fenomeno è in décalage) si sono impostate le attività di lettura su un’analisi testuale che frammentava il testo per capirlo meglio, con la conseguenza deleteria di trasformare i momenti di lettura in applicazione di una vera e propria “grammatica” classificatoria che si fermava all’individuazione degli elementi che costituivano il testo, lasciando in subordine la comprensione del messaggio (o senso) veicolato dal testo. Ci siamo cascati tutti più o meno. Non era sbagliato di per sé educare gli alunni ad un’analisi del testo. Il limite è che ci fermava a questa, come fine e non come strumento per approcciare una pagina scritta con la curiosità e la trepidazione di penetrare in mondi ed anime prima sconosciute.
I bambini fino ai 6 anni chiedono che siano loro lette e rilette storie, spesso le stesse storie, senza soffrire la noia o disinteresse. Accade anche a questa generazione di “nativi digitali”. Poi si aprono le porte della scuola e la lettura rischia di “scolarizzarsi”, uno strumento per conoscere e imparare altro. La scommessa che la scuola deve abbracciare è quella di avere la convinzione che la lettura è un bene inesauribile non solo di conoscenza ma di stupore amorevole su mondi esterni e interiori con cui paragonarsi per avere sempre più coscienza di sé, del proprio mondo interiore e delle proprie esperienze di vita.
Ecco. Descolarizziamo la lettura. Facciamo in modo che gli alunni percepiscano le pagine scritte come un regalo prezioso il cui funzionamento si impara poco a poco e che suscita emozioni, domande, certezze non previste e che mobilitano.
Molti docenti sanno strutturare azioni didattiche stimolanti l’amore alla lettura e al libro, a partire da letture “intonate” di libri in classe fino a costruire “festival del libro” a cui gli alunni partecipano non solo da fruitori ma anche da protagonisti attivi.
Momenti e situazioni da gustare e vivere, senza la preoccupazione, sia da parte degli alunni che dei docenti, di un giudizio e di una valutazione. Il risultato positivo è l’impegno e l’entusiasmo con cui gli alunni toccano fisicamente i libri, si fanno affascinare dalle copertine o dai titoli, l’importanza di cui bimbi e ragazzini si sentono investiti nella possibilità di “scegliere” un libro da leggere seduti sul divano, accoccolati sotto le coperte, in riva al mare o sotto una grande quercia in campagna.
Un libro che può diventare un amico che ci accompagna e che, terminata la lettura, vorremmo continuasse.
Così l’impostazione della lettura in molte scuole. Poi la scuola termina e si arriva all’età adulta che vede tutti noi impegnati su mille fronti e senza molto tempo “libero”. E chi ne fa le spese sono proprio i libri che vengono accantonati, salvo quei testi che interessano direttamente la nostra professione o il nostro bisogno immediato di conoscenza. Senza demonizzare queste letture “tecniche”, dobbiamo riconquistare, se mai l’avessimo perso, il piacere di “perdere tempo” su belle pagine che ci possono artigliare per vari motivi. Ci può prendere il ritmo della scrittura, la storia narrata, il profilo dei personaggi, una botta allo stomaco sferrata da una situazione che non condividiamo o che abbiamo sperimentato, e quant’altro.
Si può leggere per evadere dalla routine quotidiana, a volte pesante e faticosa, si può leggere per gustare di una buona e fluente scrittura, di uno stile accattivante. Si può leggere (magari nel tempo della pensione) per riempire il tempo vuoto da impegni pressanti. Qualunque sia il motivo che ci spinge a leggere, dobbiamo essere pronti a sorprese e a domande che un libro ci offre. Insomma. Dobbiamo farci toccare da un libro come (se ne siamo ancora capaci) quando ci facciamo toccare, com-muovere da un incontro con le persone, anche con quelle di cui crediamo di sapere e conoscere tutto. Il libro aspetta noi per essere completo, per assumere un senso forte che scuota il lettore. Jean Paul Sartre, in Che cos’è la letteratura? così sottolinea l’interazione tra scrittore e lettore.
“Lo scrittore si appella alla libertà del lettore perché collabori alla produzione della sua opera (…). Siete perfettamente liberi di lasciare questo libro sul tavolo. Ma se l’aprite, ne assumete la responsabilità (…). Se faccio appello al mio lettore perché conduca a buon fine l’impresa da me iniziata, va da sé che lo considero una libertà pura, puro potere creatore, attività incondizionata…”. (In esergo al libro di E. Rea, citato più avanti). Il libro è un’occasione di incontro e, come ogni incontro, impegnativo ma arricchente la nostra persona e la conoscenza del nostro io più profondo e del quale siamo spesso distratti dalla vita che scorre veloce e ritmata.
Scegliere un libro è un impegno e mette in moto il nostro essere, il nostro pensiero.
È più facile seguire i titoli che vengono sbandierati nel salotto di Fabio Fazio o i bestsellers della classifica vendite; è più costruttivo e appagante (salvo delusioni inevitabili) cercare un libro con lo stesso piacere e gusto con cui si cerca un abito o un quadro da appendere alla parete di casa. Più la scelta è personale, guidata dalle nostre consapevolezze, più il libro diventa nostro. Ci sono dei longsellers, apparentemente datati, ma che ri-letti con la maturità degli anni ci fanno scoprire tesori inaspettati.
Mi sia permessa una segnalazione personale. Nelle ultime settimane ho letto con grande coinvolgimento l’ultima fatica di Ermanno Rea Il sorriso di don Giovanni (Feltrinelli), un inno all’amore per i libri e per la lettura veramente forte e commovente. Una citazione come assaggio. “Il fatto è che io i libri li vivevo dal di dentro (adesso non è più così: la maturità rende molto più distaccati); spesso mi intrufolavo nelle trame, mi facevo io stessa personaggio dell’intreccio. Per carità, non di primo piano, personaggio secondario, semplice comparsa, ma con la tendenza a correggere il corso degli avvenimenti, soprattutto quando l’autore cominciava a sfumare di grigio la vicenda, a sospingerla verso quel cieco orizzonte che si chiama pessimismo”. Questo è leggere mettendo in moto il proprio essere. È forse un po’ impegnativo, ma ne vale la pena. Provare per credere.