Se mentre fate la spesa, appena fatto l’ultimo acquisto, svoltato l’angolo della frutta, con le casse automatiche ormai in vista, notate un bancale carico di libri, tutti dello stesso titolo: Open. La mia storia, non domandatevi cosa ci faccia lì un’edizione Einaudi collana Stile Libero, neppure ribassata di prezzo. Prendetelo. È uscito a settembre 2011 e voi siete in ritardo, non solo perché a casa vi aspettano con il brik di besciamella che siete usciti a comprare, ma perché ancora non avete aperto Open.
Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri genitori! Si tratti di un lapsus genuino, fiorito sulle labbra di qualche bambino o bambina, più acuti di quanto non riescano poi a pensarsi da grandi, o il frutto arte-fatto di una meditazione non banale, poco importa. Questa variante del Padre Nostro è la traccia invisibile di Open, l’avvincente racconto autobiografico di un sorprendente Andre Agassi e bottega – fondamentale il contributo del premio Pulitzer J. R. Moehringer – che ricapitola trentasei anni di vita e di tennis: dal drago lancia palle escogitato dalla mente diabolica del padre, alla creazione, in società con la moglie Steffi Graf, della Andre Agassi Charitable Foundation (fondazione scolastica), dove i due coniugi riversano il proprio impegno e dove faranno affluire 40 milioni in dollari fruscianti: “Amo le nostre idee, i nostri progetti, ma quello di cui vado particolarmente fiero è l’impegno a sostenerlo con il denaro. Un sacco di denaro” (p. 430).
“Non tutti i padri sono paterni”: lo aveva ricordato Susan Vreealand nel suo romanzo migliore e più famoso, La passione di Artemisia, a beneficio dei distratti che poi si espongono a pericolose idealizzazioni. Ma l’interessante del racconto di Agassi – il surplus per così dire – è che il suo (di padre) era una vera e propria carogna: e per un figlio cavarsela con un simile “tizzone d’inferno”, richiede di usare tutta la dotazione di sette vite (come i gatti) che ogni bambino, nato almeno con un po’ di camicia, possiede. A volte neppure quelle sette bastano, ma questo non è il caso di Agassi, moderno Gatto con gli stivali, che ne ha comunque dovute utilizzare parecchie, se non tutte: “Una cosa che ho imparato in ventinove anni di tennis: la vita ti getta tra i piedi qualsiasi cosa, tranne forse il lavello della cucina, e alla fine anche quello. Sta a te evitare gli ostacoli. Se lasci che ti fermino o ti distraggano, non stai facendo il tuo dovere, e non farlo ti provocherà dei rimpianti che ti paralizzeranno più di una schiena malandata” (p. 11).
Sul padre, Agassi è uno che non molla, anche se il suo, come Saturno, di figli e figlie se ne era già quasi mangiati due (il fratello e la sorella), e anche se lui, il terzo, era già ben indirizzato sulla stessa salita di Isacco, sul monte Moira del dio tennis.
Che Agassi fosse eccentrico è cosa nota, che avesse anticipato e molto la moda del mono-orecchino a pendaglio lo è altrettanto. Ora alzi però la mano chi sapeva che il famoso orecchino a pendaglio disegnato da lui e da lui commissionato a un artigiano di Las Vegas, rappresenta la Trinità. E alzi la mano chi sapeva del secondo orecchino, uguale al primo, di cui Agassi fece dono al suo possente preparatore, Gil Reyes, che lo adatta come ciondolo per la catenina, per non toglierselo più. Non credo che Agassi conoscesse il passo del De Trinitate dove Agostino informa i secoli a venire che Dio non è Padre in quanto Padre (in ordine alla sostanza) ma in quanto ha (saputo porre, aggiunta mia) una relazione con il figlio. Informandoci inoltre che la regola vale anche per il Figlio, ovvero che Dio non è Figlio in quanto Figlio (in ordine alla sostanza), ma solo se ha (saputo porre, aggiunta mia) una relazione con il Padre. Ad ogni modo l’informazione è chiara: non esiste il Padre in sé. E nemmeno il figlio in sé. Per ulteriori informazioni chiedere a Michele Serra (Gli sdraiati), che “sdraiato” (lui, non il figlio) per 19 anni sulla presunzione di paternità (e figliolanza) in sé, riuscirà a recuperare un inizio possibile di storia col figlio, giusto all’ultimo: in “zona Cesarini”, un istante prima che Cronos, l’arbitro delle nostre vite, fischi la fine della partita. Game over.
Agassi di padri non ne ha, e neppure li trova “precotti” in qualche istituzione surrogante la famiglia, scuola, parrocchia, squadretta, club ecc. Deve cercarseli, e una volta trovati nominarli lì per lì: arruolarli. Nel racconto di padri ne ho contati almeno tre (ovviamente al netto del suo), e se uno è Gil, vera e propria guardia del corpo di Andre (definizione che non stona neppure per lo psicoanalista, meglio di strizza cervelli…), l’altro è il secondo allenatore, Brad Gilber, che Agassi cerca e adotta, come aveva cercato e adottato altri ancor prima dello stabile rapporto con Gil: “La tensione è così spessa che mi raggomitolo sul sedile posteriore e chiudo gli occhi. Penso di saltare fuori, correre via, trovare Rudy e chiedergli di farmi da Coach. O di adottarmi” (p. 71).
Brad è un ex giocatore che a fine carriera si prende la briga di scrivere il libro Vincere sporco. Andre si incuriosisce, lo chiama, lo assume e poco alla volta, grazie a Brad, ricuce la scissione che da molto tempo aveva fatto breccia nella sua mente, tra colpo perfetto e colpo vincente: “La sua tesi che il perfezionismo è facoltativo mi dà serenità. Il perfezionismo è qualcosa che ho scelto, e mi stava rovinando e posso scegliere qualcos’altro. (…) Ho sempre pensato che il perfezionismo fosse come la calvizie o la mia colonna vertebrale ispessita. Una parte innata di me” (p. 243). Quando si dice l’ideale!
Il terzo è John Parenti, un pastore sui generis di “una specie di chiesa, una palazzina per uffici nella parte ovest di Las Vegas. È aconfessionale (…) Pare più un surfista che un pastore” (p. 157). “Ti rendi conto, vero − gli dice un giorno in auto mentre Andre sta guidando un bolide nel deserto di Las Vegas − che Dio non assomiglia affatto a tuo padre? Lo sai, Sì? − A momenti esco di strada. (…) − Quella voce che senti continuamente, quella voce rabbiosa. Non è Dio. È ancora tuo padre. − Mi giro a guardarlo: mi fa un favore? Lo ripeta” (p. 160).
Ora nel racconto di Agassi non c’è nulla di neppur lontanamente simile a un abbraccio stile figliol prodigo, neppure nella variante di Susan Vreeland, con Artemisia Gentileschi e il padre Orazio nei panni dei protagonisti della celeberrima parabola. Emerge però, sfogliando le 502 scorrevoli pagine del libro, un riconoscimento a distanza, tanto più vivido quanto più legato ai ricordi convulsi degli ultimi match, quando lo spazio-tempo prende congedo (come in una buona seduta con lo, non dallo, psicoanalista) e i pensieri sfrecciano dall’infanzia ai giorni nostri senza soluzione di continuità. “Devi fargli venire una vescica al cervello” era la massima del padre da seguire quando l’avversario appariva più forte, o sotto qualche aspetto effettivamente lo era: equivale a sfidarlo sul suo terreno facendogli perdere sicurezza. Nei match degli ultimi anni Agassi non è più il favorito. Non solo contro Sampras o Federer (“che non hanno punti deboli!“), ma con tanti altri; anche con i peones, con i parvenus ogni set diventa un’impresa.
Ecco allora, nel pieno del transfert agonistico, affiorare il ricordo del pensiero del padre: “devo fagli venire una vescica al cervello”: “Un avversario deve farmi muovere, scattare, costringermi ad affrontarlo, altrimenti giocherà alle mie condizioni. E le mie condizioni sono dure. Soprattutto da quando sto invecchiando” (p. 464). Oppure il pensiero con il quale Agassi onora la pazienza della madre: “ho scambiato il suo silenzio per debolezza, acquiescenza. (…) vuole che sappia che è più forte di quanto sospettassi (…) che sappia che io sono fatto della stessa pasta. Capisco (…) che è sopravvissuta a mio padre, come me” (p. 423). Agli Australian Open, dopo essere uscito a pezzi dal torneo di New York, Agassi incontra di nuovo Clément: “un match carico di rancore quattro mesi dopo che mi ha sbattuto fuori dagli US Open. (…) Commetto pochi errori e quelli che commetto li lascio rapidamente alle spalle. Mentre Clément borbotta tra sé in francese, io sono serafico. Il figlio di mia madre. Lo batto senza concedergli nemmeno un set” (pp. 223-224).
Lasciare cadere la fissazione sulle mancanze dei padri (madri incluse) è un passo di rilievo anche nel corso di una psicoanalisi. Se il padre era una carogna non lo sarà stato in quanto tale, semmai solo se avrà lasciato qualcosa in eredità, forsanche solo – si fa per dire − saper giocare a tennis. “I denti banchi del cane morto” avrebbe chiosato un prete ambrosiano di fama mondiale. Rileva qui notare l’importanza almeno “dei denti bianchi”, senza la presenze dei quali la parola padre non avrebbe alcun senso: “non ti chiamerò più padre” si direbbe in Umbria, dalle parti di Assisi.