Il maestro Mario Lodi ci ha lasciati (è morto domenica 2 marzo) proprio quando una fiction televisiva ripropone la storia di un altro celebre insegnante elementare, Alberto Manzi, il mai dimenticato maestro della rubrica televisiva “Non è mai troppo tardi”. Due biografie diverse per formazione e collocazione ideale, ma accomunate da forte passione educativa, da grande sensibilità pedagogica e da una straordinaria capacità di capire e parlare agli allievi (in un caso i bambini, nell’altro gli adulti analfabeti).  



Come Manzi anche Lodi non è stato soltanto un maestro creativo e geniale: è stato molto altro. Molti lo ricordano per le sue opere destinate all’infanzia, a cominciare dalla storia di Cipì, il passerotto curioso che incappa in buoni e cattivi incontri e impara a proprie spese, leggera ma profonda metafora dei tortuosi passaggi attraverso cui si realizza l’esperienza umana. Un libro dalla grande fortuna che l’editore Einaudi ha continuamente ristampato. 



In aula, con i suoi bambini – ha sempre voluto fare il maestro nella sua terra cremonese – Lodi è stato, inoltre, un didatta innovatore che ha ricercato vie nuove nel campo dell’apprendimento. La sua tesi è che i maestri per insegnare bene, come egli stesso ha spesso ricordato, devono imparare “dagli allievi, osservandoli, seguendoli, lasciandoli esprimere”. Insieme ad altri maestri tra gli anni 50 e 70 partecipò alle iniziative del Movimento di Cooperazione Educativa, facendo conoscere in Italia le cosiddette “tecniche Freinet” (dal nome del loro ideatore, il pedagogista francese Célestin Freinet). 



Scrittore fecondo di cose pedagogiche (C’è speranza se questo accade a Vho, 1963, con le sue esperienze di maestro controcorrente; Il paese sbagliato, 1971, diario di un’esperienza didattica compiuta tra il 1964 e il 1969, nella scuola elementare di Vho di Piadena), Lodi è stato, infine, anche un protagonista in prima linea nello sforzo di migliorare la scuola, vicino a don Milani (con cui fu per molti anni in relazione), senza mai cadere nella retorica di una certa sinistra permissivista e sindacalizzata. 

Poco si è raccolto di quella stagione, molto purtroppo si è dissolto. La scuola italiana ha memoria corta, lasciando spesso cadere – più per indifferenza che per esplicita cattiva intenzione – ciò che potrebbe renderla più efficace. Si può, dunque, comprendere l’amarezza di Lodi quando, nell’ultima intervista rilasciata due anni orsono, in occasione del 90° compleanno, ha dichiarato che “non è nato il popolo che volevamo rieducare, così come non è nata la nuova scuola che avevamo in mente. 

Se mi volto indietro, se penso al nostro lavoro di quei decenni, mi sembra tutto vanificato. Oggi prevale la scuola tradizionale, un modello competitivo che somministra nozioni e dà la linea”.

Non so se il bilancio di 50 anni di storia della scuola elementare italiana sia così deludente come traspare dalle parole dell’ultimo Lodi. Penso di no, anche se siamo ormai molto lontani da quell’idea di scuola un po’ romantica nel suo assoluto rispetto dell’infanzia, gioiosa, creativa, ma anche rigorosa, culturalmente densa e capace di formare “schiene dritte” che era nei progetti riformatori degli anni 70. Oggi prevalgono infatti obiettivi educativi molto lontani dalla pedagogia del maestro Lodi che rischiano di avvilire l’apprendimento in luoghi comuni standardizzati oggi di gran moda e denominati “competenze”.

Con Mario Lodi scompare anche uno degli ultimi maestri capaci di fare della propria professione un’opera d’arte, ultima espressione di una filiera di geniali insegnanti elementari che lungo tutto il secolo scorso ha realizzato le esperienze migliori della nostra pedagogia infantile. Senza scomodare Maria Montessori, Giuseppe Lombardo Radice e Maria Boschetti Alberti basta ricordare, oltre a Lodi e Manzi, anche Marco Agosti, Mario Mazza, Bruno Ciari, Alfredo Giunti, Giuseppe Tamagnini, Loris Malaguzzi, silenziosi artifici di pagine educative che sarebbe bene non dimenticare.