I dati relativi alle iscrizioni dei nostri ragazzi alla prima classe della scuola secondaria di secondo grado, forniti nei giorni scorsi dal ministero e già commentati su queste pagine, come ogni anno inducono negli addetti ai lavori, nelle famiglie e nella società civile riflessioni e commenti.
Quest’anno, in particolare, la discussione in corso sulla riduzione di un anno del percorso scolastico (o il suo anticipo, come vorrebbe qualcuno), i dati allarmanti relativi alla disoccupazione giovanile, i tassi di dispersione che non si schiodano da livelli significativi per un Paese come l’Italia, le varie e recenti ricerche e statistiche (Almalaurea, Anvur, Almadiploma) e, non ultima, l’ennesima modifica del contratto di apprendistato, dovrebbero costringerci ad andare più a fondo sulla questione del senso che l’avventura scolastica costituisce per i ragazzi per gli insegnanti e, in definitiva, per tutti noi.
Che cosa concorre, ci si chiede da più parti, a far affermare a un anno dal diploma a ben il 44% dei ragazzi di aver sbagliato indirizzo? Che cosa allontana progressivamente gli adolescenti da percorsi hard come il liceo classico e il liceo scientifico tradizionale senza che, tuttavia, questi spostamenti si indirizzino necessariamente (e a volte opportunamente) verso percorsi più professionalizzanti?
Un cattivo orientamento, si declama ormai da tutte le fonti.
Io, di orientamento, mi occupo da anni, e più vado a fondo sul tema, più rilevo che questa sottolineatura è tanto pertinente quanto rischiosa.
Se c’è qualcosa che disorienta i ragazzi, come tutti gli uomini, è navigare in mare aperto alla deriva, senza punti di riferimento, senza remi, senza cielo stellato. Cosa se ne farebbe, oggi, un ragazzo di un cielo stellato senza gps? Saprebbe ancora, se non utilizzarlo per orientarsi, almeno lasciarsi colpire dalla sua magnificenza e bellezza? L’uomo è fatto per cose grandi, anche quando rammenda i calzini e spazza per terra. Le mamme lo sanno bene. Sanno quanto quei gesti semplici di lavoro siano segno per loro e per chi vive con loro. E la scuola, guarda i ragazzi con questo respiro ampio? Camus, nel narrare del suo maestro, e del perché ne conservasse un ricordo così vivido, dice che egli “ci giudicava degni di scoprire il mondo”. Questo fa la scuola, non solo giudicare un ragazzo degno di scoprire il mondo, cosa che una buona pratica pedagogica prevede di dafault, ma fornirgli gli strumenti, insegnargli a maneggiarli, accompagnarlo nel verificarsi competente nell’utilizzarli perché questa scoperta sia significativa, e cambi la vita.
Il mondo non è più lo stesso quando riconosci una costellazione, quando scopri nei libri di Harry Potter riferimenti alla cultura classica assai più intriganti, quando sai attivare un circuito elettrico. Il mondo è più tuo, e senti di poterlo vivere appieno, non da ospite o da straniero, ma da protagonista consapevole e responsabile.
Cosa allora, davvero, orienta? Le informazioni, certo. Se facessimo un’indagine sulla contezza che un ragazzo di terza media ha sul profilo in uscita del corso di studi che ha scelto, non so quanta chiarezza riscontreremmo. Ma va bene anche così; in fondo è facendo che impari, verifichi, scopri una corrispondenza. Resta, però, compito ineludibile della famiglia e della scuola facilitare almeno una precomprensione del carattere fondativo dei percorsi, che non sta tanto nel computer per informatica, nella matematica per lo scientifico o nel greco per il classico, ma nel criterio di lettura dell’esperienza del reale che questi percorsi, nei quali i ragazzi trascorreranno migliaia (migliaia…) di ore, farà maturare in loro.
Dalla scuola, come da ogni incontro autentico, si esce cambiati. È una cambiale in bianco che famiglie e ragazzi, con fiducia, firmano affidando ad adulti competenti e appassionati (si auspica) il compito di accompagnarli attraverso sentieri più o meno impervi verso un traguardo che rinforza muscoli, acutezza della vista e fiato passo dopo passo, e non solo in vista dell’arrivo, ma in un gusto del tragitto, seppure faticoso. Non si va a scuola per poi andare a lavorare, così come non si va alla scuola materna per “maturare i prerequisiti alla lettoscrittura”, ma innanzitutto per fare esperienza. Guardini, parlando della piena umanità del bambino, ricordava il detto di Goethe che non si cammina solo per arrivare, ma anche per vivere, mentre si cammina.
Stefano frequenta il secondo anno di liceo classico. Vorrebbe, da sempre, fare il medico e, ora, è un po’ in crisi. La scuola è difficile, la richiesta alta, la sua tenuta alla fatica e alla concentrazione ancora da allenare. In questo periodo, immusonito e con parole cavate di bocca con la tenaglia, tipico strumento di tortura spesso maldestramente utilizzato dai genitori, dice che, in fondo, chi glielo fa fare? Perché durare questa fatica, quando avrebbe potuto scegliere un percorso più alla sua portata, non importa quale, così da vivere alla giornata perché, tanto, “a cosa mi servirà tutto questo se al test di medicina passa un ragazzo su dieci”? Insensatezza del presente, e proiezione stratta e frustrata sul futuro.
Poi, in questi due giorni, è successo qualcosa. È andato a vedere il Simposio con la sua professoressa, che nel riprendere con loro lo spettacolo si è compromessa (nell’accezione positiva del termine!), trasmettendo loro ciò che le sta a cuore. E poi, proprio in greco, dopo una sfilza di voti da knock-out, ha preso un bel nove, guarda caso in un compito costruito ad hoc per verificare attenzione e impegno in classe e a casa. Ecco che i genitori, abbandonata la tenaglia, hanno rischiato di dover indossare il paraorecchie tanto l’atteggiamento del ragazzo si è trasformato.
Un fiume in piena di riflessioni, spunti, entusiasmi, guadagni raggiunti nella giornata in termini di cose nuove incontrate… Stefano ha fatto l’esperienza di un bene per sé, nel quale il suo mettersi in gioco è stato richiesto, apprezzato, valorizzato, e soprattuto ha pagato. Ci si muove sempre per un guadagno e per un bene, e questo è sano.
Allora, forse, i licei classici che diminuiscono le iscrizioni oltre (invece?) che riconvertirsi per riuscire più appetibili ibridandosi con trucchi e belletti (come le cronache di questi giorni testimoniano), bene faranno a vivificare la didattica allo scopo di dare ragione della fatica che il percorso chiede, e riconoscendo che quella ragione non può che risiedere in una corrispondenza tra ciò che la scuola ti permette di incontrare, sperimentare, scoprire e conoscere e ciò che tu sei, al fondo, ovvero persona unica, potente e potenziale. Nel conoscere il mondo, conosci te stesso.
In un noto istituto alberghiero di Milano ho potuto osservare ragazzi entrare a scuola, come direbbero loro, “scialli”: trasandati nell’abbigliamento, nel portamento, nell’eloquio. Dopo mezz’ora, in sala da pranzo, li ho visti trasformati: composti, ordinati, guidati da uno sguardo tanto discreto quanto fulminante ed incisivo del prof e, soprattutto, visibilmente soddisfatti. Erano “in asse”, e non solo perché erano dritti. Erano nell’esperienza, segnati da un limite imposto ma non per questo meno liberi, e il gesto di spiegare un piatto agli ospiti, o di mescere loro il vino con garbo, c’era tutto loro stessi, e una promessa per il futuro che si compiva anche in un’azione presente. Sapevano quel che stavano facendo, seppure in una coscienza ancora in crescita, ma il maturarla è compito della vita intera. Sarà forse per questo, oltre che per le suggestioni mediatiche e per le prospettive professionali, che l’alberghiero non vede tramonti?
“Sbagliare” scuola può capitare, e può dipendere da tanti fattori, ma se a scuola si fa esperienza vera − il che non significa lasciarsi vivere passivamente ma, appunto, compromettersi con una proposta e una sfida alta − alcuno sbaglio sarà reso tempo perso, quanto piuttosto possibilità di comprensione e costruzione di sé. E il 44% dei delusi potrebbe, almeno, riconoscere il buono e il bene che ha vissuto, malgrado tutto.
Una sfida alta, una proposta alla persona, e la dignità di scoprire il mondo, tuttavia, non sono garantiti da una struttura rigida e pachidermica quale la scuola oggi è, ma da una scuola viva, fatta di persone che per prime si mettono in gioco, si riorientano, lavorano insieme e costruiscono proposte flessibili e ragionevoli. Perché di fonte alla costante distrazione lamentata nei ragazzi d’oggi ricordiamo che il contrario di distratto non è attento, ma attratto. E se la grandezza del reale è la più grande attrattiva, è proprio l’esperienza vissuta e riletta insieme che, più di qualsiasi test, orienta e mette in marcia nell’oggi, verso un domani incognito, ma sorprendente.