Pochi giorni fa si è consumato in Italia l’ennesimo processo e, questa volta, sul banco degli imputati c’era la Cultura Classica, accusata da più parti di in-attualità e – secondo i sicofanti – di in-utilità, in un mondo dove spadroneggiano la cultura scientifica e gli effetti degli idolatri dei cosiddetti “nativi digitali” .



La  giuria popolare formata da presidi, professori e studenti che gremivano l’Aula Magna del Liceo Visconti di Roma hanno assolto  il liceo classico, principale prosopopea della Cultura Classica, che rappresenta un unicum in tutto il mondo, in crisi per un vertiginoso calo di iscrizioni.

Dalle cifre riportate  dall’Espresso (29 agosto 2013) emerge che 6 ragazzi italiani su 100hanno scelto per l’a.s. 2013-14 di iscriversi al liceo classico, per un totale di 31milastudenti, mentre nel 2007 erano stati 65mila.



In base agli ultimi aggiornamenti, il dato delle iscrizioni al liceo classico rimane costante: un 6% ha scelto per l’anno prossimo, 2014-2015, di intraprendere il percorso dove le lingue antiche saranno pane quotidiano.

La cosiddetta “Riforma Gelmini”, se da una parte ha ridotto il monte ore della lingua italiana e della lingua latina in molti licei, ha lasciato invariato quello del liceo classico, riconoscendone la valenza storico-culturale.

Fino al 1968, anno di grandi movimenti di protesta studentesca, solo il liceo classico garantiva l’accesso a tutte le facoltà universitarie e – giova sempre ricordarlo – fino al 1977 il latino veniva insegnato nella scuola media come materia prima obbligatoria, poi opzionale.



Una canzone popolare di Gianni Morandi, in una commedia in bianco e nero del 1963, ci mostra un giovane della provincia bolognese, figlio di agricoltori, che sognava una carriera nel mondo dello spettacolo e non aveva testa di studiare la lingua considerata utile come “palestra della mente” (forse è diverso da oggi da chi aspira a fare il provino in un reality show?): Che me ne faccio del latino no no no no /se devo dire pane al pane ne ne ne ne /se devo dire vino al vino no no no no /che me ne faccio del latino no no no no /è un osso duro per me /sapete perché lo devo studiar /ma non lo posso parlar /non sono un cretino /ma sempre in latini prendo tre…

Nel processo al liceo classico messo in scena al Visconti di Roma come un redivo remake di tramissioni televisive del palinsesto del pomeriggio italiano (Forum e Verdetto Finale), il pubblico ministero era impersonato da Claudio Gentili, docente universitario e responsabile Education di Confindustria. Egli ha chiamato a testimoniare molti al fine di propalare il distacco di questi studi troppo “filologici” e zeppi di pedanteria  grammaticalistica, lontana dal mondo del lavoro, dal progresso dei saperi e della tecnologia, dalla globalizzazione e dalle migrazioni. 

Ancora una volta − a parere dello scrivente − e venuto fuori il provincialismo dell’Italia, quando qualcuno ha affermato, durante questo processo, che “si è fuori dall’Europa perché non ci vengono riconosciute certificazioni spendibili a livello internazionale”. Basta vedere oltre il Canale della Manica: da anni viene condotto con grande successo l’Iris Project per portare l’insegnamento delle lingue classiche e della cultura antica presso le scuole elementari statali del Regno Unito: da noi – cito un esempio senza darne alcun giudizio in merito − si mise alla berlina l’ex assessore alla Cultura del Comune Roma che − forse con modalità comunicative e motivazioni poco persuasive − aveva proposto una iniziativa del genere nel 2010.

L’accusa ha voluto confutare, con piglio socratico − dimostrando di sapere di non sapere − il topos con cui molti difensori del liceo classico si riempiono la bocca: non sarebbe reale la “presunta eccellenza” di professionisti, politici e manager formati da studi classici: “La prima scelta avviene già alle medie, quando solo i migliori si iscrivono al classico e sono sostenuti da famiglie che hanno un elevato grado di istruzione. Dopo cinque anni di faticoso ‘addestramento’, chi ne esce, riesce bene anche all’università e avrà ottime performance anche nel mondo del lavoro. Tutto questo − è stato messo alla luce − non grazie agli studi umanistici ma a individualità di per sé eccellenti già nella pre-adolescenza”. Insomma, in base a queste premesse, se al liceo classico venisse insegnato taglio e cucito, tutti uscirebbero come grandi sarti!

In un articolo di Repubblica (18 marzo 2013), Bartezzaghi, che poi ha scritto un pezzo al riguardo sul primo numero di Latinitas, la rivista voluta da papa Benedetto XVI, argomentava bene sulle motivazioni dello studio della lingua latina in risposta a una lettera di un padre che si interrogava sulla fatica del proprio figlio per una lingua morta, “che non viene più parlata”; anzi, se andiamo più indietro nel tempo, un seminario a Napoli − leggiamo in un articolo su La Stampa (4 marzo 2011) −  Giampiero Bergami, manager di un importante gruppo bancario, affermava che “tradurre dal latino e dal greco coltiva il pensiero strategico”, qualità essenziale per il successo in campo finanziario.

L’ avvocato della difesa, ipostatizzato da Nuccio Ordine, ordinario di Letteratura italiana nell’Università della Calabria, ha messo in luce che la crisi “non riguarda solo il calo delle iscrizioni. Si deve guardare al degrado progressivo della cultura umanistica. Un impoverimento riflesso nello stesso lessico: ma si può parlare di ‘giacimenti culturali’? E del Colosseo, ormai solo per il suo ‘profitto’? Gli studenti devono confrontarsi con ‘crediti’ e ‘debiti’. L’ homo economicus misura tutto con i numeri…”.

Queste parole che affabulano con il potere illusorio denunciato dal sofista Gorgia sono la testimonianza della debolezza argomentativa dei più strenui difensori della Cultura Classica, soprattutto se sono “soloni” della cultura letteraria italiana: nella realtà noi italiani non sappiamo preservare con la dovuta tutela il nostro patrimonio artistico e i frequenti crolli dei muri pompeiani (il terzo crollo di cui ho contezza è datato al 3 marzo 2014) sono lì a dimostrarlo. Per tacere delle ruspanti polemiche inerenti il restauro finanziato da un noto imprenditore con soldi privati per il Colosseo che, secondo l’uomo più potente della terra, il Presidente Obama, recentemente in visita nella Città Eterna, sarebbe “incredibilmente più grande di un campo da baseball”!

Luigi Berlinguer, ex ministro della Pubblica Istruzione, ha concluso la kermesse con la lettura solenne della sentenza di assoluzione con la condizionale ut ita dicam, auspicando “l’aumento di classicità e umanesimo in tutto il nostro sistema formativo perché nessuno si può privare della gioia, del nutrimento che questo sapere produce”.

Il processo al liceo classico sceneggiato al Visconti di Roma ha visto come spettatori il dirigente dell’Usr per il Lazio e i presidi dei tre licei classici dell’Urbe organizzatori: il nome della “trilogia” – quasi di memoria “tragica” ovvero della tragedia greca − si colloca dentro la cornice più ampia di eventi che hanno costituito la rassegna “Classici dentro: crisi e speranze per la scuola del terzo millennio”. Un’altra kermesse è, invece, di area veneta, con il titolo: “Classici contro”.

Non rimane, tra i classici dentro e contro, a noi docenti estranei alla spettacolarizzazione di questa querelle − fortunatamente per certi versi, a parere mio − che prendere in mano le sorti del liceo Classico: forse qualche alunno, divenuto adulto, ci rimprovererà, non coi sempiterni versi oraziani, ma su una pagina di Facebook,  di essere stati come l’Orbilus plagosus, ma qualcun altro – si spera! − ci ringrazierà per avergli insegnato certamente aoristi e perifrastiche e la letteratura degli antichi, ma soprattutto per aver condiviso l’amore e la passione verso un mondo lontano, eppure così vicino… al cuore.