Occhi di nuovo puntati sull’università. I dati Eurostat che snocciolano la solita sfilza di percentuali negative: laurea per il 22,4% di 30-34enni italiani a fronte del 33% della Germania (Spagna e Francia sono oltre il 40%), abbandoni al 17% nella classe 18-24 anni, bassi investimenti, sindrome da inutilità della laurea (“non serve più per lavorare”), poi il Consiglio universitario nazionale che lancia l’allarme docenti (meno 50% di ordinari e meno 27% di associati rispetto al 2008). “Il sistema è a rischio” dice a ilsussidiario.net Carla Barbati, vicepresidente del Cun. Un sistema che dalla legge 240 in poi è vittima “di un apparato regolatorio pervasivo e confuso”. 



I nostri laureati sono qualitativamente buoni, ma sono pochi, dice Eurostat. Come si spiega questo dato secondo lei?
Le ragioni sono tante. Come sempre, quando ci si confronta con dati che sono la risultante di sistemi complessi, qual è quello dell’istruzione, non è mai individuabile una sola causa. È certo possibile soffermarsi su alcune di queste, fra le quali il basso rapporto tra docenti e studenti. Il numero dei docenti non è adeguato alle esigenze della didattica: abbiamo il 25% in meno di professori rispetto alla media europea. Un’emergenza sulla quale si è soffermato il Cun nel Rapporto sul reclutamento e sugli interventi indispensabili per evitare che questa emorragia di personale indebolisca ulteriormente il nostro sistema universitario.



Le altre ragioni?
Sicuramente l’insufficienza delle risorse finanziarie, un diritto allo studio privo di adeguate garanzie e in taluni casi anche percorsi formativi che non rispondono appieno alle esigenze delle professioni e del mondo del lavoro e, per come sono configurati, alle aspettative di molti studenti. Tante concause sulle quali occorre agire simultaneamente, con azioni e politiche di sistema. Intervenire su una sola di queste può non risolvere il problema.

Sul numero dei nostri laureati incide più la dispersione o la mancanza di attrattiva del titolo di studio di terzo livello?
Credo che queste possibili cause non siano alternative, ma strettamente connesse e ovviamente dipendenti anche dalle ragioni che ricordavo prima. Aggiungerei anche un altro fattore, di natura sociale, qual è lo scarso valore che si riconosce ormai alle competenze e alle conoscenze che possono essere acquisite con gli studi universitari.



E questo da che cosa dipende?
Da diversi fattori, non ultimo dalle attenzioni spesso negative delle quali sono oggetto l’università e il corpo accademico, in tutte le sedi, a partire dai media. Se ne evidenziano prevalentemente le debolezze, i limiti, all’interno di letture che tendono alla svalutazione del sistema universitario. Tutto ciò ha un costo e produce effetti negativi, anche in termini di percezione che si ha dei “luoghi istituzionali” deputati alla formazione e alla disseminazione del sapere, della loro rilevanza e utilità sociale.

La laurea breve ha avuto qualche colpa? Che cosa è andato storto, se abbiamo meno laureati?

Il percorso di laurea triennale sembra, in effetti, non avere condotto ai risultati che s’immaginavano. Anche il mondo del lavoro e delle professioni vi ha guardato con scetticismo, quasi a dubitare della sua valenza formativa. Probabilmente, anche questa riforma avrebbe avuto bisogno di un contesto preparato a riceverla. Anche l’università non era preparata a riceverla. E questo è un limite che accompagna molte delle nostre erratiche riforme: frettolosamente scritte, applicate e altrettanto frettolosamente abbandonate a loro stesse.

Eurostat dice che la nostra spesa per laureato e troppo bassa. Gli altri paesi spendono più di noi. Hanno risultati migliori perché spendono di più o perché spendono meglio?
Le risorse devono sempre essere impiegate correttamente: questa è la precondizione, ma perché ciò accada occorrono anche condizioni idonee, nel caso programmazioni che, sino ad ora, non sono state consentite al nostro sistema universitario. Ciò detto, l’ammontare delle risorse non è variabile irrilevante e i dati convergono nell’evidenziare come, in Italia, di là dalle rituali dichiarazioni di intenti, i finanziamenti pubblici e privati siano inadeguati: quasi una conseguenza dell’essere l’istruzione superiore e la ricerca considerate voci di spesa e non di investimento.

I dati delle preiscrizioni alla scuola secondaria di II grado dicono che il 50,1% ha scelto il liceo (ma il classico è in calo). E il liceo “obbliga” ad andare all’università…
Se si intende immaginare una connessione tra liceo, necessità di iscriversi comunque all’università,  e successivi abbandoni, mi sento di dire che non credo al liceo possa imputarsi la “crisi” del sistema universitario, nella componente studenti. Altro è riflettere su quello che può essere il rafforzamento di percorsi anche professionalizzanti e questo è sicuramente un obiettivo da perseguire, anche per garantire ai giovani una pluralità di scelte, comunque alte e qualificanti, alcune delle quali dirette a una più immediata immissione nel mondo del lavoro, non solo intellettuale.

Il 44% degli studenti delle superiori (dato Almalaurea) dice di avere sbagliato scelta. Come si ripercuote questo sul nostro sistema universitario?
Genera un’insufficiente motivazione a proseguire gli studi o a condurli con impegno. D’altro canto, se gli studi prescelti non incontrano i reali interessi e le reali propensioni degli studenti, indubbiamente il percorso può rivelarsi molto più complesso, sino ad essere abbandonato. E su questo vi è molto da fare in termini di orientamento pre e infra universitario. Ma anche per questo occorre disporre di un corpo docente di consistenza numerica adeguata.

Oggi Solo il 37% di maturandi ritiene la laurea una meta irrinunciabile (dato Corriere dell’Università Job). Gli altri farebbero a meno della laurea se questa non li aiutasse a trovare lavoro. Che ne pensa? 

Questo si collega a quanto dicevo sulla scarsa considerazione sociale dell’istruzione, soprattutto di livello universitario. Anche qui occorre un’inversione di rotta e per questo occorre che il sistema dell’istruzione superiore ritorni al centro di attenzioni positive da parte di tutte le sedi istituzionali. Il sapere e la conoscenza non possono essere oggetto di interessi solo di settore, espressi dal ministero di riferimento. Devono essere attratte nell’ambito delle politiche pubbliche generali di un Paese.

Ma allora cosa non sta funzionando nelle nostre università? 
Mi chiederei piuttosto che cosa sta accadendo nelle nostre università. Questo perché il sistema universitario è, da più di tre anni ormai, impegnato ad attuare una riforma, qual è quella voluta dalla legge n. 240, quanto mai complessa e gravosa. Le migliori energie della comunità accademica sono state dedicate a recepirne le innovazioni, assolvendo ai molteplici adempimenti, spesso veri e propri oneri amministrativi, richiesti a questo fine dalle tante, troppe regole introdotte e che continuano ad essere introdotte. E il percorso è ancora lontano dal concludersi. 

Ci dica due sole cose importanti da fare subito.
Sarebbe sufficiente curare la “qualità delle regole” destinate al sistema. L’università chiede di essere governata, il che poco o nulla ha a che fare con il renderla oggetto di un apparato regolatorio pervasivo, confuso, spesso cangiante. Da qui potrebbero nascere le risposte alle due principali necessità: risorse finanziarie adeguate sia per entità sia per condizioni di utilizzo, risorse umane da reclutare in base a “regole” e a politiche di sistema che consentano agli studiosi di programmare con certezza il loro accesso e la loro progressione nei ruoli della docenza e della ricerca universitaria.