Nel dicembre 2013 si è svolto a Londra il G8 Dementia Summit, conclusosi con una dichiarazione comune comprendente una serie di impegni relativi allo sviluppo della ricerca sulla demenza, all’individuazione di nuove cure e di strategie preventive, allo scambio di informazioni tra i diversi paesi. 

In tutti i paesi il numero di anziani colpiti da demenza sta infatti crescendo ed è destinato a diventare sempre più elevato: attualmente sono nel mondo 44 milioni di persone, ma entro il 2050 si arriverà a 135 milioni. Di essi, il 71% vivrà nei paesi a basso reddito e in via di sviluppo. 



Sulla rivista Lancet si segnala però anche la possibilità di un’inversione di tendenza, per ora rilevata nel Regno Unito in quanto oggetto di una specifica ricerca. Tra le cause di tale inversione ci sarebbero le migliori condizioni sanitarie e l’adozione di stili di vita più sani (diminuzione di fumo, contrasto dell’ipertensione e dell’ipercolesterolomia). 



Gli studi sulla prevenzione richiamano inoltre il principio secondo cui “ciò che fa bene al cuore fa bene al cervello”: se i neuroni vengono mantenuti in buona salute, attraverso il meccanismo della plasticità cerebrale la demenza senile può quanto meno essere ritardata. In attesa di trovare un cura farmacologica efficace si deve pertanto intervenire sui fattori di rischio e sulla prevenzione. 

Il G8 Dementia Summit si è posto comunque soltanto come punto di partenza di una strategia che colloca la lotta alla demenza al livello più alto nei programmi di tutela della salute e degli impegni dei responsabili delle politiche sanitarie, ma tra i paesi che hanno adottato il “Piano Alzheimer” uscito dal summit di Londra non c’è l’Italia. Molto, quindi, rimane da fare, nel nostro paese, per affrontare adeguatamente l’aumento della demenza senile. 



Nel Summit purtroppo non si accenna alle politiche scolastiche. Invece, contrariamente a quanto a livello di senso comune si potrebbe immaginare (essendo la demenza una sindrome che colpisce gli anziani), la scuola potrebbe svolgere un ruolo di primo piano nel favorire il decrescere dei casi.  

Molti studi hanno infatti evidenziato come la comparsa della demenza sia influenzata dal livello culturale della persona. In particolare, le persone con un livello di istruzione più elevato manifesterebbero la malattia in ritardo, anche se poi il decorso della stessa parrebbe più veloce. La possibile spiegazione avrebbe attinenza col fatto che tali persone sarebbero più capaci di far fronte ai primi segni della malattia, nascondendoli e compensandoli. 

La dimensione biologica e la dimensione psicologica risultano quindi molto più intrecciate di quanto creduto in passato. Ed è proprio questo intreccio che dovrebbe interessare da vicino anche le politiche scolastiche. 

Come noto, i dati delle valutazioni internazionali sui quindicenni (cfr. Pisa) risultano per il nostro paese abbastanza preoccupanti: non soltanto ci collochiamo molto al di sotto della media Ocse, ma soprattutto risulta molto elevato il numero di soggetti che nei risultati si collocano ai livelli più bassi: in matematica, il 25% degli studenti si colloca al di sotto del livello 2 (il 4% degli studenti di Shangai); la percentuale è del 18,7% in scienze e del 19,5 % in lettura. Anche se rispetto alle precedenti rilevazioni si è verificata una diminuzione significativa del numero di tali studenti, ci si trova pur sempre di fronte a dati molto negativi, in quanto corrispondono al fatto che uno studente su quattro in matematica e uno su cinque in scienze e lettura non dispongono delle capacità necessarie per svolgere un ruolo attivo nella società.  

Nel nostro paese l’analisi delle capacità richieste dalle prove Pisa è stata frequentemente e affrettatamente sintetizzata nel riferimento alla dimensione della competenza. Di conseguenza le scuole sono state invitate a promuovere negli allievi il conseguimento di competenze e persino a valutarli formalmente in merito (si veda ad esempio l’esame di conclusione del primo ciclo), senza prevedere una rigorosa individuazione delle variabili e soprattutto senza fare ricorso a un’adeguata operazionalizzazione delle stesse, in modo da renderle realmente osservabili e misurabili. Pertanto i processi insiti nella costruzione di una competenza risultano alla maggioranza dei docenti pressoché sconosciuti e la competenza viene assunta dalle scuole come un guscio vuoto che non è chiaro come possa essere conseguita. 

Ancora meno si mette in evidenza come i ragazzi che abbandonano la scuola (le cosiddette vittime del dropout) non hanno soltanto mancato il raggiungimento del livello più elevato di competenze: in modo molto più preoccupante essi hanno mancato l’apprendimento delle capacità di base e soprattutto il raggiungimento di forme di pensiero superiore quali la riflessione, l’analisi critica, la capacità di analizzare e sintetizzare punti di vista diversi, la capacità di esprimere valutazioni personali, la capacità di utilizzare la lingua scritta per affrontare la vita quotidiana. Se si considera che nella maggior parte dei casi si tratta anche di ragazzi con stili di vita non sani (fumatori precoci, consumatori di alcool e droghe, privi di attività fisica continuativa), si può ipotizzare che essi siano tra i più probabili candidati ad essere vittime precoci della demenza senile. 

Tale ipotesi riceve conferma dallo studio di due ricercatrici americane, Deborah Barnes e Kristine Yaffe, pubblicato nel 2011 sulla rivista The Lancet neurology. Le due studiose stimano una possibilità di riduzione della demenza senile del 10-25%, pari a circa 3 milioni di casi, attraverso l’azione sui fattori di rischio costituiti dal basso livello di attività fisica e cognitiva, dal fumo e dal basso livello di istruzione. 

Prendendo in esame i diversi fattori, le ricercatrici sottolineano come alcuni individui dispongano di un cervello capace di agire in condizioni di “riserva”, analogamente a quanto avviene nelle auto per la benzina. Il cervello si mostra cioè capace di resistere agli effetti negativi della patologia facendo ricorso a processi o a percorsi neurologici alternativi. 

Tale possibilità è correlata a un elevato livello di istruzione, a una buona realizzazione professionale, ad attività ricreative mentalmente stimolanti. Qualora in un individuo siano presenti tutti e tre questi fattori, la possibilità di agire “in riserva” aumenta e quindi l’eventualità di essere colpiti da demenza diminuisce significativamente. Ovviamente vale anche il contrario: la probabilità della demenza aumenta in coloro che dispongono di scarse riserve del cervello. I dati del 2010 riferiti a 146 paesi indicano come sulla totalità della popolazione il 14,8% degli individui risulti non aver frequentato la scuola e un ulteriore 25,2% l’abbia frequentata solo a livello elementare. 

Di conseguenza il 40% degli individui che vivono in questi paesi dispone di un basso livello di istruzione. Le studiose ne concludono che il basso livello di istruzione è la prima causa del verificarsi della demenza nella popolazione anziana e che, quindi, l’apprendimento per tutta la vita e la stimolazione cognitiva continua comportano un minor rischio di demenza e permettono la costruzione di quella “riserva cognitiva” che consente agli individui di far fronte a un funzionamento adeguato nel proprio contesto di vita anche nel caso in cui intervengano malattie neurodegenerative. L’aumento del lifelong learning può pertanto rendere non sintomatici molti casi di demenza e può anche ridurne il verificarsi. 

Ciò che le autrici non rammentano (anche perché dovrebbe riguardare specificamente i decisori scolastici) è che il lifelong learning è reso possibile dagli apprendimenti scolastici realizzati nella prima fase della vita: le conoscenze e le capacità acquisite a scuola vengono infatti utilizzate per produrre e comprendere ulteriori conoscenze, per diventarne consapevoli e per costruire ulteriori capacità. 

Elemento fondamentale per la prevenzione della demenza senile è quindi l’apprendimento scolastico. Intendendo però quest’ultimo anche come premessa necessaria per la realizzazione professionale e per sviluppare l’amore per la cultura (arte, letteratura, cinema, teatro e quant’altro).

I dati riferiti alla popolazione italiana (giovanile e non) non possono allora non preoccupare ulteriormente: la dispersione scolastica negli istituti statali di istruzione secondaria superiore è pari al 27% degli studenti e negli ultimi quindici anni quasi tre milioni di ragazzi hanno abbandonato la scuola secondaria superiore; il 23,9% dei giovani tra i 15 e i 19 anni è definibile come Neet (Not in education, employment or training), fuori da un percorso scolastico e formativo, ma anche fuori dal circuito lavorativo. 

Circa il 50% della popolazione non legge un libro all’anno e soprattutto la quota di letture diminuisce verticalmente dopo i 35 anni di età; nel 2010 il 10% delle persone dichiara di non avere nemmeno un libro in casa; circa il 50% della popolazione possiede un titolo di studio al massimo di licenza media; è scomparso il ruolo di ascensore sociale della scuola, per cui il titolo di studio dei genitori condiziona il successo scolastico dei figli ed è correlato al tasso di abbandono della scuola. In ogni caso anche il dato secondo cui la quota più alta di lettori si colloca tra gli 11 e i 17 anni non è pienamente confortante: i libri letti sono infatti in maggioranza solo quelli assegnati dalla scuola. 

A questo quadro già di per sé negativo si aggiungono i dati dell’indagine Piaac (Programme for the International Assessment of Adult Competencies), diffusi dall’Isfol all’inizio del mese di marzo. Essi collocano l’Italia all’ultimo posto tra 24 paesi per quanto attiene alle competenze in lettura degli adulti e al penultimo posto per le competenze in matematica. Tale indagine conferma inoltre il basso livello di scolarizzazione di circa la metà della popolazione italiana: il 5,5% si colloca al di sotto del livello 1 e ben il 42,3% si colloca al livello 2. 

L’indagine Piaac si proponeva di misurare le competenze cognitive di base, sociali, di apprendimento necessarie per svolgere in modo adeguato il compito lavorativo (grado di discrezionalità, apprendimento al lavoro, capacità di influenzare gli altri, cooperazione, organizzazione del proprio tempo, resistenza fisica e destrezza manuale). 

Per svolgere in modo adeguato un lavoro non sono infatti sufficienti le abilità strumentali; non basta saper leggere (cioè decodificare) un testo e saper contare (cioè fare le quattro operazioni). Per tale ragione nel progetto si valutano da un lato “l’interesse, l’attitudine e l’abilità degli individui ad utilizzare in modo appropriato gli strumenti socio-culturali, tra cui la tecnologia digitale e gli strumenti di comunicazione, per accedere a, gestire, integrare e valutare informazioni, costruire nuove conoscenze e comunicare con gli altri, al fine di partecipare più efficacemente alla vita sociale”; dall’altro “l’abilità di accedere a, utilizzare, interpretare e comunicare informazioni e idee matematiche, per affrontare e gestire problemi di natura matematica nelle diverse situazioni della vita adulta“.

L’Italia non ha aderito alla valutazione delle capacità di problem solving degli adulti, mentre ha aderito alla valutazione dei reading components, cioè delle abilità coinvolte nella lettura. Quindi non esistono dati riferiti alle abilità più complesse richieste dalle attività lavorative. Si può presumere comunque che essi sarebbero stati ancora più negativi di quelli di lettura e matematica. 

A questo punto ci si potrebbe però chiedere quale sia, concretamente, il possibile legame tra apprendimento scolastico e demenza senile. Anche perché in assenza di tale conoscenza non risultano possibili azioni di prevenzione efficaci. 

Tale legame può essere individuato nelle funzioni esecutive, cioè in quelle funzioni della corteccia pre-frontale deputate a monitorare e controllare i pensieri e le azioni.La corteccia pre-frontale possiede una funzione di controllo e di coordinamento del comportamento, compreso quello socialmente indesiderabile: funziona come un direttore d’orchestra, come una sorta di “supervisore” (si veda di A. Reffieuna, Come funziona l’apprendimento. Cap. 1, pp. 45-47). Essa giunge per ultima a maturazione e quindi gode di tempi più lunghi di sviluppo sia a livello fisiologico sia a livello organizzativo. I periodi-chiave per lo sviluppo delle funzioni esecutive sono i seguenti: da 1 a 2 anni; da 3 a 6 anni e da 7 a 11 anni. In tali periodi la maturazione biologica della corteccia prefrontale deve essere accompagnata dalla possibilità di fare adeguate esperienze (si veda sul web il contributo sintetico di Howland, 2007). Ancora una volta, quindi, viene confermata l’importanza che assumono l’età prescolare e l’età scolare, durante le quali il bambino non soltanto acquisisce conoscenze ma sviluppa le funzioni superiori della sua mente. In particolare, tra i 3 e i 5 anni il bambino migliora la capacità di inibizione e la flessibilità cognitiva, correlativamente alla costruzione della teoria della mente, dello sviluppo morale e alla crescente capacità di far fronte a problemi cognitivi complessi. Tra i 7 e gli 11 anni il miglioramento riguarda la memoria di lavoro (o memoria a breve termine), la flessibilità cognitiva e la velocità. In particolare, il bambino diventa capace di tenere in mente un’informazione, manipolarla e trasformarla. 

Le funzioni esecutive comprendono e rendono possibili tutti i processi che stanno alla base dell’apprendimento: la capacità di prestare attenzione in modo focalizzato e sostenuto, l’autoregolazione emotiva, la pianificazione e l’organizzazione del comportamento, la flessibilità cognitiva, l’individuazione e la correzione dell’errore, il controllo inibitorio, la resistenza alle interferenze, la capacità di giudizio, la capacità di problem-solving. Sono le funzioni esecutive che rendono possibile cooperare con altre persone, perseverare nell’apprendimento, disporre di autonomia di pensiero, possedere la motivazione ad apprendere, provare il piacere della competenza. 

Se le funzioni esecutive si sono sviluppate in modo adeguato, l’individuo adulto diventa capace di superare l’impulsività, di preferire obiettivi a lungo termine, di delineare strategie per raggiungerli, di monitorare i propri progressi e di introdurre modifiche nelle strategie stesse, se necessario (si consideri la coincidenza con le variabili del Piaac). 

Il problema sta nel fatto che le funzioni esecutive presentano un elevato grado di vulnerabilità e subiscono una riduzione di efficacia quando sono “obbligate” a gestire processi di livello inferiore a causa del fatto che l’individuo non ha conseguito gli automatismi e la fluenza necessari (come risulta evidente, ad esempio, nella competenza di lettura, dove la mancanza di fluenza impedisce la comprensione del testo scritto). 

Il rapporto tra funzioni esecutive e automatismi deve pertanto essere compreso nei giusti termini: da un lato le funzioni esecutive entrano in gioco proprio quando le risposte comportamentali automatiche non sono adeguate alla situazione; dall’altro lato l’attivazione delle funzioni esecutive richiede che le funzioni di livello inferiore si siano tradotte in automatismi.  

Tutti quei giovani e meno giovani citati prima sono al di fuori dei percorsi scolastici e delle possibilità di ulteriori apprendimenti in età adulta proprio perché non sono in pieno possesso delle funzioni cognitive di livello inferiore. La prima condizione per consentire agli allievi di sviluppare le funzioni esecutive è quindi quella di dedicare tempo ed energie all’insegnamento strumentale della lettura, della scrittura e del calcolo in modo da far raggiungere gli automatismi necessari.

Significativamente, deficit delle funzioni esecutive si riscontrano negli studenti drop-out, negli studenti affetti da Adhd, Dsa, autismo e negli adulti affetti dalla sindrome di Tourette. Gli studi più recenti ipotizzano poi che anche la demenza senile comporti un coinvolgimento delle funzioni esecutive.  

Per prevenire la demenza non è sufficiente, pertanto, pensare semplicisticamente alla frequenza di un maggior numero di anni di scuola: il nodo sta nella qualità dell’apprendimento realizzato e nel raggiungimento di capacità cognitive complesse, non soltanto nel tempo di frequenza. A scuola occorre preoccuparsi di insegnare l’autoregolazione emotiva, il controllo inibitorio, la pianificazione, la flessibilità cognitiva, l’individuazione e la correzione dell’errore, la resistenza alle interferenze. Ma occorre anche insegnare come si diventa capaci di attenzione focalizzata e sostenuta, come si utilizzano le diverse strategie di memoria, come si padroneggiano i diversi aspetti del linguaggio. Non è sufficiente preoccuparsi dei contenuti disciplinari. Gli allievi devono infatti diventare capaci di far fronte all’imprevedibilità del mondo reale, riconoscendo i significati di situazioni nuove e inattese e mettendo in atto strategie alternative allorché eventi inusuali interferiscano con le routine consolidate. Essi devono cioè essere capaci di trasferire e generalizzare ciò che hanno imparato in situazioni specifiche. Ma trasferimento e generalizzazione non saranno possibili se per loro apprendimento ha significato soltanto acquisire informazioni isolate, prive di rapporto con tutto ciò che sanno e con il mondo reale. 

Analogamente non è sufficiente valutare attraverso prove a scelta multipla: occorre infatti verificare che gli allievi abbiano imparato a pianificare, iniziare e portare a termine comportamenti diretti a uno scopo, attraverso un insieme di azioni coordinate e strategiche.

Si tratta delle stesse capacità richieste dalla vita quotidiana e soprattutto si tratta delle stesse capacità assenti nei pazienti anziani colpiti da demenza. 

Diventa allora chiaro quel legame tra scuola e demenza che rischiava di sembrare una forzatura. 

Diventa però altrettanto chiaro quanto le politiche preventive debbano essere complesse e debbano soprattutto superare gli steccati disciplinari. Fare in modo che la scuola influenzi la salute fisica e mentale delle età successive dovrebbe comportare, da parte del ministero dell’Istruzione: seri interventi di formazione dei docenti (che necessitano di conoscere non soltanto i risultati delle ricerche neuroscientifiche ma anche di essere guidati ad applicarli nella didattica quotidiana); una revisione dei curricoli scolastici (costruiti in riferimento non solo ai contenuti ma anche e soprattutto alle capacità cognitive sviluppate dagli allievi); una revisione sostanziale delle modalità di valutazione (volte realmente ad accertare competenze e non limitate a verificare il possesso di contenuti). Analogamente, da parte del ministero della Salute occorrerebbe promuovere strategie di screening in cui i docenti collaborino con il personale clinico. 

Anche la prevenzione della demenza senile richiede pertanto una visione completamente diversa del ruolo degli insegnanti: fino a quando essi non saranno considerati professionisti in possesso di una preparazione rigorosamente scientifica e quindi capaci di collaborare su un piano di parità (pur nel rispetto delle rispettive specificità) con altri professionisti, non si potrà andare oltre politiche miopi di tagli alle risorse.