L’altra sera ho seguito con attenzione la puntata di Ballarò cui partecipava il ministro Giannini, tra l’altro insieme a Guy Verhofstadt. Tuttavia, nel poco spazio che le è stato concesso (direi anche a causa del bilancino parcondicista) è stata interpellata su questioni certo importanti, ma relative solo alla conduzione generale del governo in materia di fiscalità e spesa, e non ha avuto modo di esprimersi su scelte realmente legate alla politica scolastica.
Ok, se cerco approfondimenti di merito su politiche concrete, forse la sede migliore non sono salotti alla Ballarò. E non è che da questo governo siano mancati segnali incoraggianti, dalla rinnovata attenzione all’edilizia scolastica, al non sentire più idee bislacche come quella di portare da 18 a 24 ore il tempo di cattedra a pari stipendio. Recentemente abbiamo salutato con entusiasmo l’aver proseguito sulla scelta di eliminare le adozioni obbligatorie dei libri di testo, e non so immaginare quante pressioni in senso contrario il ministro abbia dovuto subire.
Ma di temi che richiedono un intervento radicale ed urgente ce ne sarebbero parecchi, ed è per questo che mi auguro che al ministro Giannini sia concesso maggiore spazio e visibilità di fronte alla pubblica opinione. Il primo che viene in mente, a chi come me opera negli anni terminali della scuola superiore, è quello dell’esame di Stato, per tutti ancora “maturità”.
Una delle battaglie liberali di più vecchia data è quella per la sua definitiva abolizione insieme al “valore legale”, e volendo questa fase costituente sarebbe propizia. Ma restando nella realtà attuale, una formula concepita tre lustri fa, al termine di un periodo di osservazione più che congruo, non solo non ha fatto l’auspicato balzo in avanti, ma ha perso via via gli elementi più innovativi. Quel che è peggio, era inserita in un ordinamento nel quale l’estrema frammentarietà dei corsi di diploma consentiva perlomeno di ritagliare il contenuto delle prove scritte quasi su misura di ciascuno. Oggi – tenendo conto che, per molti aspetti, l’anno scolastico 2014-15 è già iniziato da un po’ – il meccanismo non è più sostenibile e bisogna affrettarsi per porre rimedio almeno alla struttura delle prove scritte. Perchè a giugno 2015 sosterranno l’esame i primi studenti della “riforma Gelmini”.
Non parlo della prima prova, quella di italiano: anche su queste colonne se n’è già detto di tutto. Le più critiche sono la seconda e la terza. La seconda, tipicamente su una delle materie più caratterizzanti lo specifico corso di studi, è da sempre di formulazione ministeriale, mentre la terza, forse la più originale e interessante, è stata snaturata da una prassi che ne ha rifiutato sia lo spirito sia la lettera. Sappiamo che è formulata dalle stesse commissioni, attraverso un meccanismo utopisticamente virtuoso, ma che maggiormente evidenzia quella disparità tra le scuole che ci si ostina a voler negare.
Molti hanno suggerito di trasformarla in una valutazione su scala nazionale, sul genere Invalsi; prevedibili le opposizioni, sia per le difficoltà teoriche sia soprattutto per come articolarla in un contesto in cui non solo la storia, ma anche la geografia del sistema scolastico hanno un peso così rilevante.
Ben poca attenzione mi sembra venga invece riservata alla seconda prova, che tale schema porrebbe in capo alle singole commissioni. È proprio questo il punto cruciale della faccenda. Entro un anno le centinaia di indirizzi differenti si trasformeranno in una trentina tra licei e istituti tecnici, e non molti di più come indirizzi professionali. Cosa ci sarà scritto nelle tracce d’esame, da chi e per chi saranno concepite?
Oggi la riforma supera il concetto di “programma” nel vecchio senso di “lista della spesa obbligatoria”, orientandosi verso le competenze. E chiede, almeno sulla carta e salvo la “ritrosa timidezza” di chi avrebbe il dovere di attuarla, che ogni singola scuola, virtualmente ogni singolo consiglio di classe metta in atto la propria autonomia didattica. Grazie alla quale, in vari modi e forme, la parte forse più qualificante del lavoro delle scuole sarà tener conto delle esperienze locali, della capacità di innovazione, del collegamento al tanto abusato “territorio”.
Mantenendo la seconda prova in capo al ministero, sarà normale che la classe 5B di una scuola si trovi un tema d’esame che coincide con l’argomento che avrà sviscerato, e che invece la classe 5G della scuola di fronte non avrà toccato se non di sfuggita, perché avrà meritoriamente lavorato su altri argomenti. Il criterio di equanimità dell’esame (al di là della suo imprinting totalitario, e oggi contraddittorio con l’esigenza di autonomia, che pure ha rango costituzionale) salterebbe del tutto. A meno che i temi d’esame assumano una tale fumosità da renderli completamente inefficaci come strumento di valutazione delle capacità e dei meriti dei singoli candidati, delle singole classi, delle singole scuole. Una tendenza già emersa nell’ultimo decennio, con il passaggio da certe tracce d’esame ultradettagliate ad altre molto generiche, se non a volte completamente vaghe.
Ormai tutti han capito che l’esame di Stato non serve assolutamente a nulla, nemmeno più a stabilire i criteri per l’ammissione ai corsi a numero chiuso: la vittima ideale per la spending review. Ma, finché c’è, ad un problema di questo genere la politica deve pensare in fretta.
Anzi, aggiungo un suggerimento di mio: se si vuole che lo schema Clil diventi rapidamente efficace, perché non stabilire che la “nuova” seconda prova verta proprio sulla materia che ogni scuola sceglierà per il Clil, e sia sostenuta in tutto o in buona parte in lingua straniera?