La riforma Gelmini, che – come ognuno sa – non è nata da una visione, pedagogica, filosofica, o culturale che si voglia, ma da mere esigenze di bilancio, ha tuttavia prodotto suo malgrado alcuni effetti collaterali positivi, come per esempio la drastica riduzione degli indirizzi scolastici di studio, e in qualche caso anche la riduzione degli insegnamenti nella secondaria di secondo grado, anche se siamo ben lontani dal “core curriculum” più volte auspicato da alcuni commentatori anche su questo giornale. 



Tra questi paradossi si potrebbe segnalare anche il dibattito sui metodi di insegnamento delle discipline, che salvo una coraggiosa minoranza di volonterosi, solitamente si arresta purtroppo solo alla discussione del grado di funzionalità dei manuali scolastici, magari spinti dalle illusionistiche promesse dei promotori editoriali, e come si sa all’interno della scuola, limitatamente al famigerato collegio sui libri di testo. Ciò che spesso molti insegnanti si rifiutano di fare in quanto compito primo e inerente la natura della loro professione, correndo il rischio di mettersi in gioco personalmente, dichiarando esplicitamente finalità, metodologie e gerarchie di valore del proprio insegnamento, viene di fatto stimolato dagli effetti collaterali delle riforme organizzative. 



Tra queste c’è la drastica riduzione oraria dell’insegnamento del latino in tutti i licei, contro cui si sono levati i lai sempre più smorzati di molti, dato che alla fine la forza della burocrazia e dell’istituzione tutto schiaccia, e che di fatto, socialmente e culturalmente parlando, del rapporto con la classicità in generale e della latinità in particolare non interessa più niente a nessuno. Chi scrive è profondamente convinto che in realtà sia l’intero sistema dell’istruzione, centralizzato, sindacalizzato e burocratizzato a non funzionare, poiché è pensato più per rispondere ad un problema occupazionale che non di formazione ed educazione, e quel poco di impianto culturale che gli rimane deriva ancora dalla riforma Gentile. 



Di ciò hanno parlato anche su questo giornale ben più autorevoli commentatori, e non è su questo che voglio concentrarmi. La discussione sul quadro orario, infatti, fuori da una riflessione globale su come si vuole pensare il sistema, rischia di intorbidarsi con preoccupazioni sindacali. 

Ciò che rilevo, invece è un dato di fatto. Di fronte ai cambiamenti imposti, qualcuno ha scelto di fare di necessità virtù, e accorgendosi che tre ore didattiche settimanali non sono sufficienti per svolgere l’intera descrizione grammaticale della lingua neppure nell’arco del primo biennio, pur dopo decenni di lavoro serio e coscienzioso si è nuovamente posto la domanda sul proprio insegnamento, cercando metodi alternativi. Questa è stata l’occasione per alcuni di interessarsi al metodo contestuale-induttivo che è praticato da diversi colleghi in una piccola ma non insignificante parte dei licei d’Italia, oltre che ormai in una rete di scuole, istituzioni, accademie e università che benché minoritaria tuttavia è diffusa sia in Europa che in Nord America. 

Per non limitarsi sempre al pur eccellente lavoro dell’Accademia Vivarium Novum qui in Italia e per fare invece alcuni nomi per esempio d’oltreoceano, certamente è doveroso citare i dipartimenti dove lavorano i professori Terence Tunberg e Milena Minkova (University of Kentucky) o la professoressa Nancy Llewellyn (Wyoming Catholic College), che hanno saputo coniugare la ricerca specialistica con la didattica del latino secondo il metodo-natura in ambito accademico. Attraverso YouTube è possibile vedere (e ascoltare!) diversi esempi di conferenze, esperimenti didattici, interviste, ecc., scilicet latine

Così la necessità forzata dalla riorganizzazione della scuola ha permesso ad alcuni di superare il pregiudizio o la paura e di cercare nuove possibilità, che − come ho già avuto modo di esprimere su questo giornale − sono nuove solo perché da tempo dimenticate. Mi è capitato pertanto negli ultimi tre anni di essere chiamato in diverse scuole a presentare il metodo natura, e in particolare nell’ottobre del 2013 al convegno annuale della rete Europa Latina che si è tenuto a San Felice sul Benaco, la principale rete di scuole in Italia che a livello di secondaria superiore promuove l’aggiornamento e l’approfondimento della didattica del latino secondo il metodo natura. 

In quel contesto ho avuto l’occasione di fare un bilancio di circa dieci anni di insegnamento, dei tentativi fatti, del materiale raccolto, del peso da dare ai diversi fattori del metodo e della relazione tra il metodo e i fattori contestuali (tipologia di scuola, tipologia di classe, problematiche generali e specifiche inerenti lo studio e la scuola, ecc.). A conclusione di quel lavoro mi sento di dire che nel contesto attuale, con una classe di liceo scientifico di medio livello è possibile arrivare a completare il quadro morfosintattico e lessicale atto a leggere, comprendere e discutere alcuni testi di Catullo senza vocabolario alla fine della seconda classe. 

Ciò costituisce un ottimo ponte con la storia letteraria che si deve svolgere in triennio, poiché essendo anche qui intervenuta una riduzione oraria, ed essendo necessario nuovamente individuare delle priorità, si può ripensare il canone degli autori, non solo riducendoli ma redistribuendoli su un arco temporale diverso. Si può pertanto cominciare dal I sec. a.C. − che segna il momento in cui la lingua viene regolamentata in modo sostanzialmente definitivo (come ha ben dimostrato W. Stroh) − sacrificando la lunga stagione arcaica, di cui si può leggere qualche opera in traduzione, magari di teatro, per provare poi a spingersi nel corso del triennio anche al di là delle colonne d’Ercole del II sec. d.C., ovvero fino a Boezio, come propone la bellissima Storia della Letteratura Latina di M. Von Albrecht. 

Certo anche in questo caso va ripensato il metodo dell’insegnamento e presupponendo di poter svolgere il metodo-natura su tutti e cinque gli anni, si potrebbe ridurre drasticamente la descrizione storico-letteraria a vantaggio di una canone di letture in lingua, solo per i cui autori ci si dedicherebbe alla relativa contestualizzazione. 

Se ciò che propongo funziona, potremmo aspettarci di avere in uscita dalla classe quinta degli studenti che posseggano un livello di acquisizione linguistica tale da poter leggere scorrevolmente un’opera in latino di media difficoltà, avendo alle spalle un canone di letture effettivamente svolte. Se è vero che vitae non scholae discimus, quale esito migliore di aver dato ai ragazzi la possibilità di proseguire in proprio lungo tutta la vita l’avventura della lettura dei classici nella loro lingua? Forse in questo modo, avendo ridato una passione perché abbiamo ridato l’esperienza viva e diretta dei classici, potremo educare delle generazioni che in futuro potranno pensare che tre orette settimanali per la lingua e la letteratura latina siano poche. 

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