Quand’ero un giovane studente universitario mi trovai ad ascoltare un professore che sosteneva, con l’aria un po’ sorniona, che lo scopo dell’università non era diffondere la cultura, ma preservarla: un professore doveva quindi ritenersi completamente soddisfatto dopo aver formato in vita sua un solo studente che gli succedesse. Mai avrei immaginato che quello che mi pareva un minimalismo spiritoso molti anni più tardi avrebbe avuto il suono di un desiderio smisurato e utopico. Se il numero dei docenti nell’università italiana sta crollando, se l’orientamento politico è verso una loro ulteriore riduzione, ciò significa che moltissimi non hanno avuto e non avranno nessun successore. 



La pachidermica macchina dell’Asn (Abilitazione scientifica nazionale), sempre che non venga affossata da qualche giudice, servirà quasi interamente per doverose promozioni, non per nuove immissioni in ruolo. Molti dei professori rimasti, sfiniti da adempimenti burocratici, cercano solo di andare in pensione il prima possibile, e quando incontrano uno studente brillante non hanno di meglio da consigliare che darsela a gambe, mirando ad altro lavoro o altra nazione. Certo, in alcuni casi (quelli che chiamerei dei «professori per caso») qualcuno potrebbe chiosare: fortuna che non ci sono successori! Ma il più delle volte ciò significa tradizioni di studio e di ricerca interrotte o indebolite, innovazioni spente sul loro nascere, lacune macroscopiche nei curricula di studio. 



E, andando avanti, chiusure di corsi di laurea, diminuzione netta del numero degli studenti e dei laureati. Il Rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca 2013, meritoriamente elaborato dall’Anvur, ha tracciato in proposito un quadro inequivocabile: l’università italiana sta morendo.

Che cosa accadrà? Impossibile dirlo, le azioni umane implicano sempre una dose di libertà e le previsioni sono impossibili. Non è dato di sapere se l’attuale governo (sia nella sua guida Matteo Renzi, sia nella responsabile dell’Università Stefania Giannini) farà qualcosa, facendo seguire gli atti alle parole (e in alcuni casi anzitutto sostituendo i silenzi con le parole). La posta in gioco è enorme, ma l’università non è un tema popolare se non presso gli studenti, che in fondo sono pochi e stanno diminuendo. 



L’elenco delle cose da realizzare e da incoraggiare è però chiaro: su queste pagine gli articoli di Luisa Ribolzi e di Carla Barbati hanno già formulato proposte sufficientemente precise e totalmente condivisibili. Pure l’ultimo punto invocato da Luisa Ribolzi, «mettere a sistema la valutazione» lo è, purché questo significhi contemporaneamente intervenire nell’attuale normativa con il machete, a cominciare da quella emessa nei giorni scorsi, sgrammaticata e lunare (per citare uno Scalfaro d’antan). Ma di ciò ho già scritto altrove.

Ma, di là dalle questioni contingenti, quali sono le vere poste in gioco? 

Ne vedo sostanzialmente due. La prima è l’idea di cultura. Gli ultimi mesi sono stati il teatro di un felice dibattito sul ruolo della cultura umanistica in Italia e gli interventi pubblicati hanno costituito, nella loro prevedibile diversità, uno dei dossier più ricchi e interessanti degli anni recenti. Nel manifesto che ha dato fuoco alle polveri, Esposito, Galli della Loggia e Asor Rosa denunciavano: «ci sembra inaudito che da decenni manchi qualsiasi discussione pubblica appena impegnativa sulle forme, i contenuti e i fini che l’istruzione stessa dovrebbe avere». Bene, finalmente una discussione c’è stata! Ma che cosa concluderne? La mia impressione è che non c’è un problema della cultura umanistica: il problema è della cultura in assoluto. 

Cultura significa interrogarsi sui mezzi ma ancor prima sui fini. Cultura significa pensare che la libertà è indispensabile alla ricerca, e che sottoporla a criteri immediati di utilità è distruttivo (non solo per le lettere, ma anche per le scienze). Cultura significa essere convinti che l’incontro tra metodi e tradizioni differenti non è un’eccezione da tollerare, ma la regola da seguire. Cultura è pensare, come voleva Platone nel Fedro, che la verità va ascoltata anche se viene detta da una quercia (la quale, notoriamente, aveva un basso Impact Factor in Attica). È bello ricordare che, di fronte alla barbarie crescente del nazismo, Edmund Husserl non invocava la resistenza armata, ma la cultura, più esattamente la ricerca libera di una comprensione di sé e del mondo, che riesce anche a colmare il fossato tra scienze umane e naturali. 

Ideale arcaico? Non credo. Oggi le barbarie sono diverse, ma non la cura. Qualche settimana fa, in un corso di introduzione alla filosofia per studenti di economia, cercai di spiegare perché «la verità ci rende liberi» (senza citare l’autore di quest’affermazione: confesso il plagio). Moltissimi studenti all’esame, non richiesti, me lo hanno ripetuto convinti: la verità ci renderà liberi. Bene, ho pensato che, se fosse per gli studenti, l’università avrebbe un futuro radioso.

La seconda è il rapporto di fiducia che deve vigere tra le autorità dello Stato e l’università. In fondo è qui il grande problema della burocrazia: la sua ipertrofia (sommata, paradossalmente ma non tanto, alla cecità e all’assenza di sanzioni per i pochi nullafacenti) veicola una continua, frustrante mancanza di fiducia, che fa passare la voglia di lavorare e di prendere iniziative, o addirittura le rende impossibili. Fiducia significa che si deve supporre che le cose siano fatte bene a meno che consti il contrario. In uno scambio privato, un collega mi ha detto che questa supposizione è «comica». Lo ammetto, è comica. 

Così come è comico supporre che i genitori siano in grado di allevare ed educare i figli. È anche comico supporre che un medico debitamente abilitato alla professione lavori a regola d’arte. È comico supporre che un insegnante in aula faccia il suo dovere anziché raccontare barzellette. È comico supporre che ciò che non è proibito sia permesso, anziché l’inverso. È molto, molto comico supporre prima di una condanna definitiva che pure un imputato colto in flagrante sia innocente. Sarebbe molto più serio uno Stato in cui spiritosaggini simili fossero cancellate: il problema è che Stati siffatti li abbiamo conosciuti, o magari solo immaginati, e insieme con l’indubbia serietà presentano qualche difettuccio collaterale. 

La fiducia ha i suoi rischi, perché è una scommessa: ma una scommessa sulle persone, sulle loro capacità, sulla loro creatività, cioè sulle uniche forze che finora hanno generato bellezza, cultura, verità. Una volta che i veri casi di inadempienza siano individuati e sanzionati (cosa facile, ma che, ripeto, nessuna delle normative attuali pare voler fare), l’università per sopravvivere ha un disperato bisogno di questo gesto di fiducia.