Ai proprietari dell’asilo nido milanese aperto 24 ore per andare incontro alle esigenze dei genitori che lavorano di notte bisogna almeno riconoscere di averlo detto: “deve essere chiaro che non siamo un parcheggio per chi non vuole occuparsi dei figli”.

A suggerire la precisazione sono state forse le inevitabili polemiche: non solo quelle di oggi, riportate anche dall’articolo di Repubblica che racconta la storia, ma già di qualche anno fa. Di realtà simili, infatti, si era già parlato, quando Milano, allora governata da Letizia Moratti, inaugurò l’esperimento degli asili nido h24: e anche all’epoca erano state invocate le esperienze estere: Svezia, Giappone, Stati Uniti. Esperienze che non mancano di essere citate anche nell’articolo odierno, naturalmente senza interrogarsi su quale sia la storia diversa che sta dietro ogni realtà nazionale, e quasi dando per scontato che sia il caso di imitarle.



Ufficialmente, la finalità degli asili nido ad apertura estesa è quella di aiutare i genitori impegnati nel lavoro notturno. Vista così, sembrerebbe “solo” un’ulteriore concessione fatta dalla famiglia al lavoro: un altro passo in avanti nella direzione già da tempo intrapresa, che ha portato a poco a poco a chiedere che i nidi (e poi le scuole) aprissero prima, chiudessero dopo, che restassero aperti d’estate, nei fine settimana, durante le vacanze.



Flessibilità, si è detto: ma ad essere flessibili qui sembrano più che altro i bambini, anche loro malgrado, impossibilitati come sono ad opporsi. Passo dopo passo, i bambini sono stati condotti a rinunciare alla tavola, ai giochi, ora anche al letto di casa: mentre tutto il resto intorno – il lavoro, i sussidi, i congedi – restava rigido, improntato a ragioni altre. 

Ma davvero la motivazione prima dell’affidamento a un nido notturno è il lavoro? Per rispondere a questa domanda viene in soccorso, tra le righe, un dato: il prezzo del servizio, 90 euro a notte. È il costo di un pernottamento in stanza in un albergo di media categoria, per due adulti. Ora, se l’esigenza nascesse dal lavoro dei genitori, avrebbe carattere regolare, e non occasionale: un rapido calcolo rende tuttavia difficile immaginare che l’asilo nido notturno possa soddisfarla.



Quali genitori lavoratori, turnisti di notte, possono pagare 1.800 euro al mese per far dormire fuori il proprio figlio (sempre che ne abbiano uno solo), piuttosto che permettersi la tata a cui si riferisce il titolo dell’articolo? Bisogna allora assumere che il ricorso a simili strutture sia occasionale: come suggerisce, del resto, la seconda parte dell’articolo, che cita i casi di altri asili, aperti fino a tarda sera. Qui però la finalità cambia: si tratta di “permettere ai genitori di trascorrere una serata in libertà” (sic!). Non una necessità sociale, insomma, ma un modo per superare l’unico ostacolo che si frappone tra mamma e papà e il raggiungimento del tanto agognato svago.

Ecco, basta sfatare l’equivoco di un servizio su misura per i più piccoli, che incontra un loro bisogno, o addirittura si propone scopi educativi, e parlare senz’altro di “aspirazione” a “una serata con le amiche”. Anzi, abituati come siamo ormai a considerare tutto un “diritto”, è già strano che il termine non venga usato in questo caso. Il nocciolo della questione sta proprio qui: nell’abitudine ormai acquisita a equiparare desiderio e diritto, e in quella ormai persa a rinunciare, a sacrificarsi, a mettere da parte se stessi per fare spazio ad altro.

O ad altri, in questo caso i figli: i quali forse non avvertono lo stesso impellente bisogno di “libertà”. Capiamoci, allora: siamo di fronte a un bisogno (effimero) degli adulti, a cui gli adulti trovano una loro risposta, con tutte le cautele e le rassicurazioni del caso (presenza di pediatri, di pedagogisti, haloterapia…): ma pur sempre pensata per loro, non per i loro figli. Chiarito questo, dunque, torniamo a noi: come si fa, ora, a non chiamarlo parcheggio?