Oggi, mettere a tema il fatto che “Il Sud [dunque anche la Sicilia] è rimasto indietro” rispetto a ciò che potremmo considerare i tratti del moderno sviluppo socio-economico, come ha fatto il recente lavoro di Emanuele Felice edito da Il Mulino (Perché il Sud è rimasto indietro), costringe a una scelta inevitabile: fare spallucce e considerare l’argomento un topos impolverato della storia della cultura italiana, ovvio almeno come “la pizza italiana è la migliore”, oppure riprendere in mano la “questione” in modo diverso, fuori da quelle riduzioni cui tutta la retorica meridionalista l’ha ridotta. 



Quest’ultima opzione va percorsa per due motivi: per un senso di responsabilità verso i nostri figli, che già all’ultimo anno di scuola superiore tremano, perché riempiono l’attesa del dopo-diploma con la nenia di “tanto di qua devo andarmene, perché qua non c’è niente”; perché la retorica meridionalista non ha inciso sulla società, sulla cultura del popolo e dunque non ha portato ad alcun cambiamento reale. 



Anzi, in parte ha peggiorato le cose, poiché ha cristallizzato l’immagine del Sud fino al punto da farla diventare il frame, la cornice interpretativa – anche di noi meridionali – di qualsivoglia fenomeno riguardante il Sud. Ricordo che qualche anno fa mi capitò di accogliere a  Palermo dei turisti parigini cui, un po’ mortificata, spiegai la ragione dell’immondizia per le strade a causa dello sciopero prolungato dei netturbini. Rimasi stupita della loro reazione: “Mais chez nous aussi!”. E mi spiegarono che anche Parigi aveva subìto lo sciopero dei netturbini e che per giorni la città era stata un cumulo di immondizie. A me venne quasi da dire “Ma come? Non è il Sud d’Italia la terra dell’immondizia?!”. Evidentemente non solo. Altro cliché: gli insegnanti del Nord sono più bravi, poiché gli studenti del Nord raggiungono livelli scolastici superiori di quelli del Sud. Vero, ma quanti insegnanti del Sud insegnano al Nord? Di esempi come questo ce ne sono molti altri.



Forse è allora opportuno riconoscere che prima di porsi alcune domande, fondate sulle analisi “dati alla mano”, bisogna recuperare un atteggiamento di apertura alla realtà. Altrimenti qualsiasi dato sarà “usato” per confermare il frame di partenza. Insomma, se ci interessa il destino dei nostri figli dobbiamo scegliere se ci interessa la realtà o l’immagine che abbiamo di essa.

Questo atteggiamento può portare a sgomberare il campo da false questioni.

Quando si dice “manca il lavoro al Sud” – che conferma il coro di “qui non c’è niente!” – c’è il rischio di esaurire la realtà in questo asserto. Invece la realtà è più grande e più complessa. Perché non è solo vero che “manca il lavoro”, ma anche che “il lavoro cambia”, cioè è diverso da com’era prima. 

Questo è testimoniato da vicende personali interessanti per gli amanti dei fatti e non del folklore meridionalista. I protagonisti sono giovani che hanno rischiato il loro desiderio di lavorare in una terra dove “non ci sono posti” (a meno che non si voglia diventare medico: non sarà forse questo il motivo dell’esplosione di vocazioni mediche tra i liceali?). E hanno iniziato proprio cercando di lavorare e non cercando il posto. 

Uno di questi è Rodolfo. Niente parole, basta che andiate a vedere il sito della sua azienda, www.zerocento.it. Poi ci sono Michelangelo e Giuseppe, da cui è nato NEU [nòi] che si può scoprire andando su http://www.neunoi.it/. E poi ci sono altri. Certo, non stiamo parlando della soluzione per la chiusura della Fiat di Termini Imerese. Stiamo parlando di giovani che non ha vinto la paura cinica del “qui niente è possibile”, bensì ha mosso il desiderio di scoprire se era possibile che una loro passione e il loro talento professionale potessero incontrare i bisogni nuovi e reali del mercato. 

Queste vicende risultano interessanti per chi non accetta di abbandonare la questione meridionale ai toni cupi e di commiserazione (o disprezzo) di chi imposta il problema in modo fatalista e determinista – quasi irredimibilmente verghiani −, ossia i toni di quelle tragedie dove l’io non conta. Conta che cosa, allora? La politica? Da dove dovrebbe iniziare questo fantomatico cambiamento? In nome di che? E come ci aspettiamo che debba essere? Eccoci allora di nuovo alla questione dell’apertura alla realtà o dell’immagine. Perché magari il cambiamento, silenziosamente, così piccolo da non essere statisticamente incidente, è già in atto e non lo vediamo. Perché non è come ce lo aspettiamo.

Forse la questione del Sud, del Nord, dell’Europa, del mondo, del Terzo Mondo sarebbe più autenticamente posta nella misura in cui si fa spazio a realtà e soggetti che già adesso rischiano e creano sviluppo reale, che cercano, che incontrano e tentano di rispondere al bisogno, che condividono soluzioni e si muovono davanti al reale. Questo bene comune va tutelato e favorito dalla politica.

Il Sud è rimasto indietro perché è stato cristallizzato in un’idea. Questa cristallizzazione ha fatto anche comodo, è diventata spesso sinonimo di stato di emergenza, fondi speciali, denaro “a pioggia”. Accorgersi della realtà e uscire dalla cristallizzazione significa evitare  la distribuzione “a pioggia” dei fondi e rendere più efficaci alcune strategie di spesa. Così come, d’altro canto, cercare lavoro, e non il posto, permette di accorgersi di opportunità diverse, atipiche, ma reali. Insomma, la questione è innanzi tutto culturale ed educativa. Senza retorica.

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