Che la parità scolastica in Italia sia attuata solo a metà, è noto. Su come finanziare chi svolge un servizio pubblico a tutti gli effetti, si può discutere, e il dibattito è aperto; al tempo stesso, però, non tutte le soluzioni si equivalgono e alcune sono migliori di altre; altre ancora possono trarre in inganno. Nei mesi che hanno preceduto l’incontro di papa Francesco con la scuola italiana, per esempio, si è fatto un gran parlare di “costo standard” come dell’uovo di Colombo che può finalmente permettere di realizzare la parità reale. Qual è il contributo dello Stato alle paritarie per alunno iscritto? E a quanto ammonta invece il contributo per alunno iscritto alla scuola statale? Bene, il costo medio è l’asticella. Poiché il costo dello studente statale è nettamente superiore a quello dello studente di scuola paritaria, sulle voci “dare” e “avere” non c’è più dubbio. Trovata la cifra, la si usi per perequare gestione statale e gestione paritaria, dando all’una e all’altra i soldi dovuti.
Ma è davvero tutto così facile? Forse no. Ilsussidiario.net ha cercato di capire che cos’è il costo standard e qual è il suo ambito di applicazione con Alberto Zanardi, docente di scienza delle finanze nell’Università di Bologna ed esperto di federalismo fiscale.
Professor Zanardi, cosa vuol dire costo standard?
Innanzitutto, è un termine che appartiene alla riforma del federalismo fiscale. Siamo dunque in un ambito di finanza pubblica. Qui uno dei problemi più importanti è quello di riformare la distribuzione delle risorse finanziarie a favore di comuni, province e regioni, assegnando a ciascun di loro, per le funzioni che questi enti svolgono, l’ammontare di risorse “giusto”, corretto, rispetto ai servizi resi.
Spieghi in che cosa consiste, professore.
Nel corso degli ultimi tre anni è stato fatto un imponente lavoro, sul piano tecnico, per calcolare i fabbisogni standard per le funzioni comunali. Parliamo dei vari settori di intervento fondamentali in cui operano i comuni, che vanno dalla polizia locale ai servizi sociali, come gli asili o i servizi per anziani o i servizi per la programmazione territoriale, per arrivare ai servizi che sono collegati all’istruzione – scuolabus, servizio mensa, fornitura di servizi accessori, eccetera. Tutte queste funzioni sono state valutate nell’ammontare corretto, “giustificato”, di risorse che dovrebbero essere attribuite a ogni comune per offrire questi servizi ai livelli attuali, tenendo conto delle caratteristiche strutturali di ciscuno di essi.
Vada avanti.
Per la maggior parte delle funzioni comunali sono stati calcolati i rispettivi fabbisogni standard, cioè il livello di spesa complessiva giustificato. Per un numero limitato di funzioni (ad esempio gli asili nido) sono stati invece ricavati i costi standard, cioè quanto costerebbe fornire una unità di servizio (ad esempio un posto in asilo nido) tenendo conto − di nuovo − delle caratteristiche sia dell’offerta, sia della domanda. Da un lato quindi c’è la dotazione finanziaria da attribuire al comune per fornire il servizio. Dall’altro c’è il costo unitario per unità di fornitura di quel servizio.
Si può paragonare il costo medio al costo standard?
Assolutamente no, perché i fabbisogni/costi standard considerano nella loro determinazione la molteplicità di caratteristiche che differenziano un soggetto fornitore − nel nostro caso, un comune − da un altro.
Ma allora abbiamo a che fare con un numero di variabili enorme.
Certamente. Esempio: la polizia urbana. Un comune turistico ha caratteristiche di fornitura (tipologia, orario…) diverse rispetto a quelle di un comune che turistico non è. Come vede, qui non stiamo parlando di una media nazionale, ma di livelli di spesa o di costo che possono essere fortemente differenziati da comune a comune, e che sono ultimamente spiegati dalla popolazione e dai territori su cui ogni comune insiste. Dove costa di più lo scuolabus, in un un comune che sta in montagna o in uno che sta in pianura?
Dunque stabilire il costo standard…
Vuol dire fondare su elementi giustificati e riconoscibili il fatto che a un comune diamo più risorse finanziarie e all’altro diamo di meno.
Sembra l’antidoto ad un’astratta uguaglianza di trattamento.
Lo è, nella misura in cui il principio è il rispetto della diversità di forniture a parità di servizio. Se è giustificato che un determinato comune riceva di più per bambino fornito rispetto a un altro comune, sulla base del fatto che in quel comune è più costoso fornire quel servizio, allora dobbiamo dargli di più; una media nazionale sarebbe penalizzante per quel comune.
Quindi a monte dell’elaborazione del costo standard c’è un gigantesco lavoro conoscitivo.
Infatti. Sono stati approvati i costi standard comune per comune: vuol dire oltre 6mila comuni (gli enti delle Regioni a statuto speciale non hanno partecipato all’operazione) moltiplicato per tutte le funzioni fondamentali, individuate in 12 aree di intervento pubblico a livello comunale.
Come si può usare il costo standard ottenuto, nel caso delle scuole?
Un comune potrebbe porsi un obiettivo di politica educativa, volendo garantire un livello più elevato rispetto a quello osservato nel numero di posti disponibili. L’Europa chiede che almeno il 33% dei bambini sotto i 3 anni trovi posto in asilo nido. Ma a Reggio Calabria quel 33% vale forse il 4 o 5%; l’amministrazione potrebbe porsi l’obiettivo di stabilire quanto costa garantire un livello di offerta di posti asilo pari all’obiettivo.
I costi stadard sono a regime?
No: nel senso che i fabbisogni/costi standard sono stati determinati per i comuni, ma la loro applicazione concreta è ancora tutta sulla carta. Sono stati calcolati sul piano tecnico, ma non sono stati ancora utilizzati per attribuire effettivamente le risorse finanziarie ai comuni per le funzioni che svolgono.
Sarebbe ipotizzabile parlare di determinazione del costo standard di un alunno a livello nazionale?
Nel mondo della scuola gran parte dei costi (85-90% della spesa corrente) sono legati al personale. Questo, forse, potrebbe costituire un elemento di relativa maggiore semplicità nel calcolo rispetto ad altri ambiti di intervento pubblico.
(Federico Ferraù)