Il ministro Giannini ha mandato in soffitta i test d’accesso alla facoltà di medicina. Niente più quiz in primavera per spuntarla e avere un posto, confidando molto nella sorte, nella schiera dei camici bianchi. Lo ha detto il ministro due giorni fa, durante un question time sul web, organizzato dal suo partito Scelta civica. La Giannini guarda ora con favore al sistema francese, dove a fare la scrematura non sono i quiz ma gli esami del primo anno. Funzionerà? Sì, ma solo a tre condizioni, secondo Andrea Lenzi, ordinario di endocrinologia nell’Università La Sapienza di Roma e presidente del Consiglio universitario nazionale.
Professore, cosa pensa della riforma annunciata dal ministro Giannini?
Che il sistema dei quiz abbia delle limitazioni è indubbio, ora gli studenti si giocano tutto il futuro in questo modo. Che esistano altri sistemi d’accesso tra cui quello francese è altrettanto indubbio, ma per esportarlo non è sufficiente dire: prendiamolo e facciamo come in Francia, perché è un sistema molto articolato: alle superiori prevede un anno di introduzione alle varie aree dell’università, fra cui quella delle scienze della salute; poi, al termine del primo anno, a seconda dell’esito degli esami lo studente può proseguire il track di medicina, andare alle professioni sanitarie oppure uscire. È un sistema basato sul merito puro.
Invece di giocarsi tutto in un quiz, ci si gioca tutto in un anno di corso. Non è meglio?
Sì. Alla fine del primo anno però si dev’essere certi che non siano i Tar a dire chi va avanti, ma una valutazione di merito. Infine, essendo il nostro un sistema inserito in quello europeo della formazione, dobbiamo mettere in conto di rispettare la normativa europea.
Il che significa?
Presuppone la frequenza obbligatoria di oltre mille ore e la certificazione delle attività svolte dallo studente anche al primo anno, dove l’insegnamento è non solo teorico ma anche in laboratorio.
Quindi?
La domanda è semplice: abbiamo strutture, personale e risorse per 70-80mila iscritti contro i 10mila del numero programmato? Come si vede, c’è un problema di risorse molto importante da risolvere per poter importare un impianto in cui nel primo anno si gioca l’intero sistema.
Secondo lei la nostra università ha le forze per farlo?
Ha le forze, ma non ha le risorse. Quando io mi sono iscritto a medicina, nel lontanissimo 1971, ero la matricola 4862 della Sapienza, dopo si sono immatricolati almeno altri 2mila, quasi 7mila solo al primo anno di Sapienza, ma allora si frequentava in 3-400 e il sistema laureava il 10% degli immatricolati. Attualmente laureiamo il 90% degli immatricolati e dobbiamo continuare a mantenere questo standard.
Ma se laureassimo il 90% di 80mila immatricolati, ci troveremmo ad avere non più il rapporto virtuoso che abbiamo ora di circa 4 medici per mille abitanti, che abbiamo raggiunto faticosamente dopo la bolla degli anni 70-80, ma decine e decine di medici per mille abitanti che sarebbero inutili e disoccupati. Non possiamo permettercelo, né nei confronti degli studenti, né delle loro famiglie.
In sintesi, professore?
Servono tre condizioni: risorse per poter includere gli studenti al primo anno facendo loro fare tutte le attività formative previste dal curriculum di studi europeo; un rigoroso sistema di sbarramento finale, una dotazione fatta di esami sostenuti più un’altra prova selettiva, che potrebbe essere necessaria. Potrebbe anche essere un quiz.
Un altro quiz?
Una prova di selezione rigorosa. Senza però dimenticare di chiedere ai francesi cosa cambierebbero a casa loro, perché mi risulta che là qualche obiezione al sistema ci sia… Ma mi permetto un suggerimento, che in realtà è la terza condizione per far funzionare tutto.
Sarebbe?
C’è bisogno di un orientamento fatto come si deve durante le superiori, in modo che non si presentino in 80mila per 10mila posti. Non accade in nessuna parte del mondo. Il rapporto ottimale aspiranti vs immatricolati è di 2 a 1, massimo 3 a 1, noi siamo 8 o 9 a 1! Adesso l’orientamento, semplicemente, non c’è, e la laurea in medicina è considerata un bene rifugio. Questo spiega la situazione nella quale ci troviamo.
Cosa bisogna fare secondo lei?
Al terz’anno della scuola superiore si intraprenda un serio orientamento che spieghi i vari campi del lavoro, con un ultimo anno orientato verso le scienze della vita piuttosto che le scienze tecnologiche o le scienze umane. Chi vuol fare scienze della salute − medicina, biologia, biotecnologie o professioni sanitarie − deve fare un track differente. Mi rendo conto, è una riforma epocale. Senza orientamento però non si va da nessuna parte.
C’è un altro problema che lei senz’altro conosce ed è la differenza tra l’aumento dei posti d’accesso alla laurea (10.700 posti nel 2013) e la diminuzione dei contratti di specialità (3.500 nel 2014). Vuol dire l’impossibilità per migliaia di studenti di terminare il percorso di studi.
Certo che lo conosco, è una tragedia del sistema. Abbiamo fatto iscrivere sei anni fa tot studenti a numero chiuso senza agganciare il numero degli immatricolati e quindi di laureati (in un sistema che porta il 90% degli immatricolati alla laurea) al numero dei posti di specializzazione…
Come ne usciamo?
Calcoli che mille contratti di specializzazione costano circa 30 milioni di euro. È un problema che il Mef può, deve risolvere.
La Giannini ha detto di voler partire dall’anno accademico 2015-16. Le pare possibile?
Abbiamo un anno davanti. Il ministro, oltre che un politico, è un rettore e sa bene quali sono le risorse necessarie per mettere 80mila studenti in aula con tutto quel che ci vuole per una laurea professionalizzante a normativa − sottolineo − europea. Dunque sa meglio di me che si può fare…
(Federico Ferraù)