Da qualche giorno serpeggia la polemica sul romanzo Sei come sei di Melania Mazzucco, proposto al Liceo Giulio Cesare di Roma, e accusato da alcuni genitori e studenti di essere volgare e diseducativo, con ovvia controreazione di chi si atteggia a censurato. Lo schema è il solito: difensori dei diritti e delle diversità contro discriminatori e omofobi, illuminati e illuminanti contro oscurantisti. Rubando un’immagine a Charles Péguy, girano due bande di clericali: catechisti del nuovo e catechisti del vecchio, quelli che… una fellatio gay che male c’è, e quelli che una fellatio gay è la fine del mondo. 



In uno degli stralci sotto l’occhio del ciclone, un «muscoloso, ruvido, stopper della squadra di calcio dell’oratorio», che «la notte si stancava la mano sulle foto di Jimi Hendrix», un pomeriggio «nello spogliatoio» a un tratto «si inginocchiò, fingendo di cercare l’accappatoio nel borsone», e invece «ficcò la testa fra le gambe di Mariani e si infilò l’uccello in bocca. Aveva un odore penetrante di urina, e un sapore dolce. Invece di dargli un pugno in testa, Mariani lasciò fare. Giose lo inghiottì fino all’ultima goccia e sentì il suo sapore in gola per giorni».



È giusto che un adolescente legga frasi come queste? “Siamo nel 2014”, pensano in tanti, “esiste di peggio”. “In che mondo siamo finiti!”, scuotono la testa altri. Qualcuno precisa che un conto è che i ragazzi guardino scene porno per i fatti loro, un altro è che gliele propinino a scuola. “Allora bisognerebbe censurare quello che non è conforme alle vostre idee?”, replicherebbero i moderni ai medievali. 

La discussione andrebbe avanti all’infinito, come capita al bar. Come in un bar in cui si può litigare su tutto, dimenticandosi però se il caffè di quel barista è buono oppure no. La scuola è diventata esattamente questo tipo di bar, e lo si capisce dal motivo per cui vengono fatti leggere certi libri: è quel motivo, più che la fellatio, che mi sembra pornografico. Perché i ragazzi, è vero, certe parole possono leggerle quando vogliono, e parlano anche più volgarmente; certe scene le possono guardare o anche filmare, sia pure per ragioni superficiali, magari per sfottersi o per sfogare i loro istinti più triviali. Gli adulti invece no: loro gliele somministrano per ammaestrarli. E ci assegnano sopra anche la prova scritta, per verificare se la cura sta funzionando. 



Quando gli insegnanti si difendono affermando che quel libro sensibilizza a temi importanti come la lotta contro l’omofobia, chiariscono dove si annida il problema: per loro la letteratura non serve che a far passare una certa ideologia; la scuola non ha come fine la conoscenza della realtà ma l’indottrinamento. 

Ma perché i docenti di italiano, anziché insegnare letteratura, fanno i catechisti? Perché, volendo liberarsi della vecchia morale dei preti, si mettono a fare i nuovi preti? Uno scrittore non certo puritano come Pier Paolo Pasolini individuava il grande «equivoco» dell’insegnamento della letteratura a scuola nella «preoccupazione moraleggiante, la costante didascalica… Ahimè, quale grigiore!». La scuola si è assunta il compito di sostituire ai racconti belli – e per questo, di per sé, educativi –  racconti scelti in conformità ai valori con cui vuole rifare la testa dei ragazzi. 

Già prima che i preti dei giornali politicamente corretti ottenessero l’implorata difesa nientemeno che del ministro dell’Istruzione, la preside del Giulio Cesare si era spinta a scomodare perfino Saffo e Catullo: «Ci accusano di divulgazione di materiale osceno perché venti righe in un libro raccontano un rapporto orale fra uomini. Allora, cosa dovremmo fare? Eliminare i versi di Saffo o di Catullo dal programma?». Questa «è educazione», ha chiosato come una madre badessa.

Ecco, appunto, il problema. Che cos’è la letteratura? Saffo e Catullo potrebbero anche essere più sconci della Mazzucco, ma siccome qui stiamo facendo letteratura e non catechismo, la questione fondamentale è se sono artisti o no, cioè quale esperienza permettono di fare. Tutti (forse) sanno fin dalle elementari che il Minotauro nacque dall’unione di una donna con un toro: ma nessun insegnante, quando racconta quel mito, lo fa per educare i suoi alunni al rispetto per le diversità e per lottare contro la torofobia. Non facciamo finta di non sapere che evidentemente quando leggiamo i carmi di Catullo non c’entrano niente le omelie sui rapporti extraconiugali di Lesbia, ma scopriamo di più che cosa siamo; così come quando Saffo non prende sonno per tutta la notte, senza la sua amata, fino a vedere le Pleiadi che tramontano, non scrive un inno ai gender ma ci fa stringere il cuore.

Insomma, Catullo e Saffo resistono da più di due millenni non perché froci, ma perché poeti: quel libro della Mazzucco invece? Non vorrei che quella sia la scena più interessante di un libro zeppo di omaggi a temi alla moda quali l’amore omosessuale, l’utero in affitto, il bullismo omofobo: già in tanti film non può mancare la scena di sesso e al concerto del primo maggio non può mancare il discorsetto demagogico, forse per condire film e canzoni altrimenti insipide. 

Sarei anacronistico se avessi paura di una scena spinta: mi fa paura piuttosto questo esercito di catechisti travestito da insegnanti, questi ghigliottinatori di omofobi coi parrucconi di Robespierre e la Mazzucco sotto braccio, che ti ficcano gli uccelli nella bocca e i valori giusti nella testa. 

Questi che trasformano la scuola, come ha detto un mese fa il cardinal Bagnasco, in un «campo di rieducazione», e lo fanno per nascondere la loro incapacità di fare esperienza della letteratura: per loro il Canzoniere e l’Eneide sono lontani dall’attualità ed è meglio affrontare le tematiche degli adolescenti con libri non si sa se immensi o mediocri ma che vengano dai giri giusti; per loro la letteratura insegna ma non è; loro i libri non li leggono, loro devono farsene qualcosa. E giù gli incontri sulla legalità, sul femminicidio, sull’orientamento sessuale, sull’integrazione. 

Ma non si può leggere la Mazzucco per convertire gli omofobi, come non si può leggere Dante per convertire gli atei. Che poi leggendo Dante qualcuno si converta pure, è una conseguenza dell’esperienza artistica della Commedia; altrimenti si faceva prima ad andare a messa. Quando il governatore del Lazio Zingaretti afferma che quello è «un libro contro l’omofobia», mi dà un buon motivo per non leggerlo: perché magari, se ci tolgo la lotta all’omofobia, non si tiene più in piedi, e si svela che trattasi non di arte bensì di liturgia. Allo stesso modo sarebbe ultrariduttivo leggere l’Inferno perché è un libro contro i traditori o i mangiatori di figli o i naufraghi nell’oceano. 

No, cari insegnanti: «la costrizione ideologica esercitata sull’atto della poesia trasforma senz’altro i leopardi e le aquile in agnelli e tacchini». Lo dice Pavese, specificando che il poeta ha il «compito specifico di conquistatore di terra incognita». Se lo chiedono, gli insegnanti, a che altezza si vola con un’aquila come Dante e in che pollaio si finisce con i nuovi catechismi? In quale «terra incognita» si entra perfino quando all’inferno i diavoli scorreggiano o d’Annunzio perverseggia e in quali paludi di indottrinamento e di chiacchiericcio ci si infanga con altri libri? 

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