Caro direttore,
ho letto con interesse la “confessione” del prof. Mereghetti, insegnante di storia che si autoaccusa di “aver fatto” solo mezzo ‘900 e che si rammarica di non aver saputo concludere il programma nel modo dovuto.
Pur apprezzando alcune delle considerazioni esposte nell’articolo, mi sono venute in mente diverse riflessioni sul tema, riflessioni che vorrei impostare proprio dal punto di vista storico.
Con la riforma dell’autonomia (e si parla ormai di 15 anni fa, più propriamente del termine dello scorso secolo) la responsabilità della progettazione dei percorsi didattici è passata alla diretta competenza dei docenti che sono stati chiamati ad elaborare il curricolo degli studenti (anzi, nel Regolamento DPR 275/99 si parla di curricoli individualizzati e/o personalizzati) tenuto conto degli obiettivi generali e dei vincoli dati dal sistema, dei bisogni formativi degli alunni e “delle esigenze e delle attese espresse dalle famiglie, dagli Enti locali, dai contesti sociali, culturali ed economici del territorio”. Un ampio mandato che ha stentato ad essere concretizzato, salvo alcune generalità.
Come alibi si è invocata da più parti la ritardata riforma degli ordinamenti che si è fatta attendere per molti anni. Così i “programmi” dei corsi di studio sono stati congelati fino alle più recenti innovazioni normative (per il secondo ciclo, dopo lo stop alla riforma Moratti, si è atteso fino al 2010). Ma la ratio sottesa all’autonomia non è mai venuta meno, così come non sono state cancellate le indicazioni contenute nella legge che ha modificato gli esami di Stato sia nei contenuti che nella forma (e siamo nel 1997!). Vi si parla esplicitamente di verifica della preparazione di ciascun candidato in merito agli obiettivi generali e specifici dei corsi di studio e di “dare trasparenza alle competenze, conoscenze e capacità acquisite, secondo il piano di studi seguito”.
Peccato che tale riforma, davvero epocale, sia stata letta e vissuta da molti in modo tradizionale, tanto che le numerose innovazioni ivi contenute sono diventate talvolta rivisitazione di vecchie prassi per indagini meramente contenutistiche. Già, perché si continua a parlare di “programmi” anche quando, da molti anni, il sistema chiede ai suoi operatori di guardare oltre e di progettare altro. Il prof che scrive forse non si è accorto che le cose che chiede già sono da molti anni contenute nelle leggi dello Stato? Perché non può impostare il lavoro in modo che si consenta agli studenti di misurarsi con la contemporaneità?
Con la riforma che ha introdotto Indicazioni nazionali per i licei e Linee guida per gli istituti tecnici e professionali, i programmi vanno in damnatio memoriae, in quanto viene attuato finalmente il dettato del regolamento dell’autonomia: si chiede ai docenti di lavorare perché gli studenti raggiungano gli obiettivi generali e quelli specifici di ogni disciplina con gli strumenti (contenuti) che vengono suggeriti e non più imposti.
E ciò comporta un cambiamento nelle metodologie di approccio didattico, la rivisitazione dei contenuti stessi, un’analisi della loro efficacia formativa e la necessità di una riprogettazione dei percorsi finora seguiti.
E inoltre è opportuno, anzi necessario, che tale rivisitazione venga fatta insieme ai colleghi, in quanto i risultati di apprendimento richiesti dalle indicazioni nazionali sono declinati per competenze (per le quali le conoscenze sono strumenti fondamentali, ma strumenti e non finalità), per conseguire le quali è necessario l’apporto progettuale di tutti.
Quale “programma” dunque? Se la scelta è la contemporaneità, il professore saprà senz’altro impostare un lavoro innovativo che ne tenga conto. Non sta a me, anche se ex insegnante di storia, fare esempi o dare lezioni: non esistono ricette, ma solo la capacità di leggere i bisogni degli alunni e del contesto e tradurli in azioni didattiche. Grazie
Grazia Fassorra
Anp – Area Formazione