Domani papa Francesco incontrerà in piazza San Pietro il mondo della scuola italiana. Non sarà una giornata concepita appositamente per l’istruzione cattolica; soprattutto, non sarà nulla di simile a una “chiamata alle armi”, per dirla con le parole di monsignor Nunzio Galantino, Segretario generale della Cei, ma “una festa”, dedicata a tutto coloro che hanno a cuore l’umano nell’uomo.



Monsignor Galantino, qual è il significato di questa giornata? 
Innanzitutto direi che cosa non dev’essere: una chiamata alle armi. Sarebbe bello invece che fosse una festa, non solo di ragazzi e docenti, ma di tutti coloro che sono coinvolti nella vita della scuola, al servizio di un unico obiettivo: recuperare la centralità e la bellezza dell’impegno educativo.



Perché vuole dissipare questo dubbio?
Inutile nascondercelo: viene facile, certe volte, travisare il senso degli incontri nei quali è coinvolta così tanta gente. Quando sono presenti tante realtà, associazioni, gruppi, è inevitabile che si possa anche perdere di vista l’obiettivo comune.

Che cosa le sta più a cuore?
Riflettiamo su quello che ha voluto il cardinale Bagnasco: è stata esclusa da subito, con chiarezza, la volontà di strumentalizzare l’evento come occasione per rivendicare qualcosa, qualsiasi cosa,  tranne una, che andrebbe chiesta a voce alta: la centralità che deve avere la formazione in questa nostra società. Perché ho l’impressione che proprio questo stia succedendo; si taglia da tutte le parti, ma soprattutto si taglia senza colpo ferire sul piano dell’educazione, della formazione e della scuola. 



Perché la Chiesa si preoccupa così tanto dell’educazione?
Il fondamento dell’educazione è di natura antropologica. L’uomo è una realtà perfettibile, formabile. Proprio per questo bisogna che ci sia qualcuno che si prende cura di questo perfezionamento, e la perfettibilità per eccellenza è quella che riguarda l’anima, la cultura, i valori, gli obiettivi alti verso i quali ciascuno di noi deve mirare per vivere. Indipendentemente poi dalla natura specifica di questi valori. 

Nessun confessionalismo quindi.
Assolutamente no. Occorre attrezzare la persona perché la sua perfettibilità vada nella direzione giusta, quella di una maggiore umanità. Questo è il compito dell’educazione. 

“Mandateci in giro nudi ma non toglieteci la libertà di educare”: è stato uno dei primi appelli di don Luigi Giussani. Secondo lei questa libertà oggi c’è?
Questa libertà grazie a Dio c’è ancora, al tempo stesso però ci sono molti modi per ridurla, e uno è quello di continuare pervicacemente, contro la legge di 14 anni fa (la 62/2000, ndr), a considerare la scuola statale come quella “vera” e a guardare con sospetto quella cosiddetta privata. Dimenticando invece quel che dice la legge, cioè che esiste una sola scuola pubblica, statale e paritaria. Purtroppo siamo ancora una nazione provinciale, un paese dove tutto viene letto in termini di scontro e di lobby.

Storicamente il rapporto con lo Stato non si è dimostrato facile. Lei in questi ultimi anni vede un’evoluzione positiva o negativa?

Vedo soprattutto un affievolirsi della capacità di leggere la realtà in maniera non pregiudiziale. L’Italia è il paese della bellezza e della cultura, ma anche quello in cui è più faticoso liberarsi dai pregiudizi. Se una cosa buona viene fatta da uno che la pensa diversamente da me, perde il suo valore?

Qual è il contributo che la scuola paritaria come tale offre alla scuola pubblica, in Italia, oggi?
La stessa possibilità di una scuola paritaria, che va definenendosi e determinandosi a seconda di coloro che sono i soggetti che la promuovono, con la loro storia e la loro identità, è già di per sé segno di opportunità che possono essere date a tutti. 

Lei che cosa chiede allo Stato?
Di vigilare perché la scuola paritaria e la scuola statale favoriscano realmente, in tutti, la crescita dello spirito critico, aiutando gli studenti a fornirsi di quegli strumenti che li rendono capaci di abitare il nostro tempo in maniera critica, libera, bella e costruttiva.

Una delle parole chiave nelle quali la Cei ha racchiuso il messaggio della giornata è “umanesimo”. Qual è, sotto questa luce, il compito del singolo educatore?
L’umanesimo è l’insieme di valori che una società o una realtà ritiene fondamentali perché un uomo sia più uomo. Allora chi educa cosa deve fare? Non solo indentificare, chiamare per nome e de-finire questi valori, ma anche offrire gli attrezzi necessari perché questi valori possano essere fatti propri, vissuti, diventare l’anima della vita di una persona, e attraverso di essa, della società.

Ci sono dei potenziali rischi che corre una scuola di ispirazione cattolica?
Sì, ma sono quelli di qualsiasi realtà educativa: smettere di essere una realtà che forma lo spirito critico, accontentadosi invece del piccolo cabotaggio e delle risposte prefabbricate. 

“Le scuole cattoliche non devono in alcun modo aspirare alla formazione di un esercito egemonico di cristiani che conosceranno tutte le risposte, bensì devono essere il luogo in cui tutte le domande vengono accolte, e dove, alla luce del Vangelo, si incoraggia la ricerca personale”. Lo disse anni fa l’allora cardinale Bergoglio.
È una citazione che riassume nel modo migliore quanto andiamo dicendo. Guai a formare noi i soggetti di una egemonia culturale che vada a sostituirsi ad un’altra egemonia cultruale. 

Se un domani lo Stato attuasse la piena parità scolastica, il problema educativo sarebbe risolto?
Assolutamente no! Il nocciolo dell’educazione non dipende dalla forma esterna, ma da quello che si è e da come si interpreta il proprio ruolo. La possibilità di formare ad una precisa egemonia culturale, la scuola italiana l’ha esercitata negli anni 60 in una maniera, ahimè, egregia. Io ho insegnato storia e filosofia nei licei e non mi ricordo che ci fosse troppa alternativa nella scelta dei testi, tutti orientati a una cultura tardomarxista. O ti adeguavi, o eri fuori. C’è naturalmente anche l’altro rischio.

Quale?

Quello di una clericalizzazione della cultura. Non ce n’è uno minore, sono gravi entrambi perché entrambi negano la dimensione critica che la cultura deve portare dentro di sé, nel suo Dna. Il problema, dal punto di vista culturale, non è scuola statale o scuola paritaria, ma salvaguardare la formazione allo spirito critico. E comunque, l’educazione spetta a tutta la scuola, non solo ai docenti.

Cosa intende dire?
Che è tutta la scuola che deve riposizionarsi su questo compito. Qui tocchiamo il tema della famiglia. Oggi la famiglia, normalmente esclusa dalla scuola, viene chiamata in causa solo quando non se ne può più fare a meno, o quando si tratta di fare elezioni-farsa. Ma è la famiglia il primo soggetto educativo, non la scuola o la chiesa.

Ma concretamente in che modo la famiglia dovrebbe giocare questo compito?
Innanzitutto scrollandosi di dosso il ruolo marginale nel quale è stata confinata fino ad ora. Sappiamo bene che gran parte degli obiettivi scolastici vengono decisi dagli organi di partecipazione, però mi piacerebbe sapere quante scuole si rivolgono alle famiglie per progettare con i genitori le priorità della scuola. 

(Federico Ferraù)