Nell’articolo precedente abbiamo disegnato a grandi linee lo scenario in cui si colloca, in tutta la sua originalità, il principio educativo proposto da don Luigi Giussani ne Il rischio educativo. La modernità, abbiamo osservato, in occidente ha spazzato via i principi presupposti del naturale processo educativo che nei tempi passati prescrivevano l’ovvia integrazione di passato e di futuro nell’alveo accogliente della tradizione mediante l’incontro delle generazioni.
I naturali meccanismi che assegnavano all’adulto il compito di educare e al giovane il dovere di imparare non funzionano più.
Poiché all’origine dell’educazione non può dunque esserci un obbligo imposto e universalmente riconosciuto, sarà necessario sopperire alla sua mancanza provocando l’insorgere della discepolanza grazie al desiderio suscitato dalla persuasività della proposta. Il nocciolo del pensiero pedagogico di don Giussani sta qui: nel mettere allo scoperto quest’unica possibilità che, come si vede, fa appello contemporaneamente alla libertà del giovane e alla capacità testimoniale dell’adulto. Poiché il rapporto educativo non è iscritto nelle strutture della nuova antropologia, esso può nascere solo come conseguenza della libera scelta del giovane che imbattutosi nel testimone di un’esperienza sommamente appagante decide di accogliere la sua proposta e di mettersi alla sua scuola.
Perché l’incontro tra l’adulto e il giovane abbia la forza di suscitare quel desiderio, occorre che la testimonianza abbia a sua volta la capacità di destare un’attrazione forte e persuasiva. Solo un’esperienza forte può avere la forza esemplare che occorre per generare un’esperienza altrettanto forte tale da rendere possibile la verifica sperimentale della sua corrispondenza intera (Giussani definisce la sua misura come impensata e impensabile) al bisogno dell’uomo. E sarà questa piena corrispondenza a definire la proposta della fede come la suprema razionalità, ossia la più vera e autentica possibilità di realizzare il proprio destino.
È evidente che in questa prospettiva la proposta della fede non è l’offerta di un pacchetto di dogmi o di una dottrina di precetti morali, ma la proposta di un’esperienza della quale la definizione più esatta e comprensiva che si può dare è quella che la definisce un grande amore, quel grande amore del quale don Giussani, citando una frase di Romano Guardini (dall’Essenza del cristianesimo) dice che occupa il cuore in maniera così pervasiva da diventare, nell’esistenza di un uomo, l’ambito nel quale avviene ogni cosa che avviene.
Don Giussani non è un uomo moderato, come non è uomo moderato un rivoluzionario, come non è uomo moderato un genio, come non è uomo moderato un santo. E tuttavia bisogna riconoscere che se la vitalità traboccante e fervorosa che lo anima è statisticamente fuori norma, egli è un affascinante modello della normalità cristiana. Ogni volta che metto gli occhi su una pagina dei suoi libri – massime quelli che riportano la registrazione dei suoi incontri con i giovani – non c’è volta che non mi assalga la mente l’idea che la santità è la forma normale della vita cristiana.
(3 – fine)