Gli interventi della preside Grazia Fassorra e di Giovanni Cominelli a corollario dell’originario intervento di Gianni Mereghetti sul rapporto tra lavoro didattico ed esami di Stato credo siano la migliore riprova del perché i cambiamenti nel sistema scolastico sono, in Italia, un’utopia.
La tesi che cercherò di dimostrare è che i cambiamenti sul piano normativo, non accompagnati da una visione di sistema, portano ad un duplice errore di analisi: inducono a pensare che il quadro “riformatore” sia completo ed attuabile e, contemporaneamente, fanno attribuire in via prevalente se non esclusiva la volontà di conservazione ai soggetti attuatori delle “riforme” (ed il virgolettato ci sta tutto!) e cioè i docenti.
Di questo duplice errore prospettico si fanno – a mio parere – portavoce, per il primo aspetto la preside Fassorra e per il secondo corno del problema Giovanni Cominelli.
Il difficile rapporto tra analisi e analisti esterni al sistema scolastico (spiegherò fra un attimo perché ritengo tali sia Cominelli che la preside Fassorra) e scuola “militante” ha una plastica rappresentazione nei tre interventi dei due critici che, almeno a giudicare dalle appassionate e persino accorate repliche di Mereghetti, non colgono il dato reale della disorganicità degli interventi sin qui fatti nel segmento delle scuole superiori.
Spero di non essere bacchettato (come Mereghetti per aver usato il termine “programmi”) per definire così l’istruzione secondaria di secondo grado o magari il primo, secondo biennio e quinto anno del lessico gelminiano ma anche questa puntualizzazione ha un senso che si coglierà, spero, proseguendo nella lettura.
La posizione espressa e ribadita dalla preside Fassorra si sintetizza in questo giudizio negativo: i docenti, nella generalità dei casi, ignorano una precisa cornice normativa (dal programma prescrittivo alle Indicazioni nazionali, dall’apprendimento prevalentemente di tipo trasmissivo alla acquisizione delle competenze) e sono, perciò, l’elemento frenante di un cambiamento profondo in atto a partire dalla scuola dell’autonomia.
Cominelli ci mette il carico da novanta: i docenti italiani sono fuori dal mondo (ed una commentatrice aggiunge che la soluzione del problema è, nell’era Renzi, di rottamare i docenti affetti da burn-out – e ci può stare – e, comunque, di una certa età. Obsoleti si direbbe, oltre che vecchi anagraficamente).
Insomma il quadro completo sarebbe che ci sono tutti i presupposti per innovare il sistema (e Fassorra s’arrischia ad inserire persino il riordino gelminiano nelle magnifiche sorti e progressive della scuola italiana) ma sono i docenti la nota stonata e pure dissonante che rovina l’armonia.
Non avrebbe senso un mio intervento difensivo di tipo corporativo. Come dico sempre le generalizzazioni non hanno senso per i medici, gli avvocati o i presidi e non si capisce perché non dovrebbe essere così anche per gli insegnanti.
Per dare, però, a Cesare quel che è di Cesare, uno che legge e magari collabora pure con ilsussidiario.net dovrebbe chiedersi se è plausibile che un docente come Mereghetti (che scrive quello che scrive con un tono dichiarato addirittura di sofferenza) sia definibile come il reprobo che ignora sia che i programmi non esistono più, e sia che il nuovo che avanza è normato e perciò stesso attuabile.
Ed allora la prima, ma per me usuale e dirimente, domanda è: ma Fassorra e Cominelli quando scrivono di scuola hanno presente, oltre che gli aspetti teorici, anche i dati fattuali? Per dati fattuali intendo l’applicazione concreta (attuata attraverso anche le famigerate circolari et similia di cui ha scritto qualche tempo fa Chiosso) delle novità ribadite con dovizia di citazioni di fonti normative da Fassorra.
Perché si può scrivere di damnatio memoriae dei programmi che non esistono più, si può parlare di didattica per competenze, si può persino ironizzare su docenti fuori dal mondo reale, ma non ci dovrebbe esimere dal verificare se le “novità” normative sono implementate (per usare un termine moderno e così mi evito l’accusa di obsolescenza) ed implementabili a livello di sistema.
Ed allora consideriamo il punto di partenza della “confessione” pubblica di Mereghetti. Egli non parlava del tema generale “come lavoro a scuola e come insegno la Storia”. No, egli manifestava senso autocritico in relazione ad un evento, gli esami di Stato, che non hanno risentito né della didattica e meno che mai della valutazione per competenze, poco dell’autonomia delle scuole (stante l’ipotesi di sostituire o affiancare, in un prossimo futuro con una prova nazionale, l’unica traccia di autonomia reale che è, con tutti i suoi limiti, la terza prova) e zero del passaggio dai programmi alle Indicazioni nazionali.
C’è evidenza di questa mia affermazione? Proverò a fare riferimenti concreti, facilmente riscontrabili anche da parte di chi, come Cominelli, è lontano da anni dalle aule che riscopre nei tour di verifica delle conoscenze sulla Costituzione e persino dalla preside Fassorra che, secondo le sue note biografiche, sembrebbe mancare da un po’ di anni dalla scuole, quelle che solo oggi qualcuno scopre essere piene di amianto, quelle dei soffitti che crollano, quelle dei registri elettronici obbligatori facoltativamente (sic) e delle prove d’esame che arrivano ancora da Roma anche se per le moderne vie telematiche.
Primo riferimento, recentissimo, una delle tracce della prima prova degli esami di Stato dello scorso anno. Una traccia a carattere economico sui Brics e cioè i paesi emergenti nell’era della globalizzazione. A stare alle critiche, suggerimenti e bacchettate di Fassorra e Cominelli, quella traccia avrebbe dovuta essere svolta agevolmente e da un buon numero di studenti se solo ci fossero docenti di storia aggiornati, informati e sensibili.
Ma solo docenti di storia perché, per intanto, insegnamenti di economia nelle quinte non ne sono previsti, poco nel vecchio ordinamento e per nulla nelle quinte “riordinate”. Bisognava farlo sapere l’anno scorso e bisognerà farlo sapere per il prossimo futuro agli estensori delle tracce ed agli scrittori di articoli che bacchettano i docenti obsoleti.
Ora, però, proviamo ad immaginare cosa avrebbe dovuto fare il docente “mondano” nella visione di Cominelli ed il docente attento alla cornice normativa rinnovata nella visione di Fassorra. Le Indicazioni nazionali citate dalla Fassorra avrebbero aiutato? Non credo proprio, perché per inquadrare un tema come quello in termini non generici o puramente storicistici servono conoscenze di ambito specialistico. Ad uso del lettore riporto testualmente il riferimento presente nelle Indicazioni nazionali sul tema: “la svolta socio-culturale di fine Novecento: informatizzazione e globalizzazione”. Le Indicazioni nazionali, in ogni caso, ancorché non prescrittive non possono, però, essere interpretate come il viatico per il docente “tuttologo”.
Quindi nell’esempio riportato, programmi o Indicazioni per me pari sarebbero stati, persino al di là della vigenza delle une rispetto agli altri.
Se poi, come fanno Fassorra in misura maggiore e Cominelli meno, non ci riferiamo solo allo specifico della storia ma affrontiamo un discorso di carattere generale sui cambiamenti non percepiti e passiamo per esempio a considerare le seconde prove a carattere tecnico, il discorso diventa ancora più ostico per i sostenitori del “nuovo che avanzerebbe” e dei detrattori dei “docenti frenatori”. Perché prove nazionali costruite su conoscenze acquisite solo in parte o non acquisite nel caso di prove nazionali di tipo tecnico, in materie di indirizzo o di indirizzo professionale non sarebbero prove con buoni risultati. Ed allora, vista la previsione di prove nazionali, si ritorna, necessariamente, alla discussione relativa al valore legale del titolo di studio.
Ma il thema decidendum della attuale discussione non è questo.
Allora non si può tracciare un profilo del docente arretrato e frenatore solo perché all’esterno non si percepisce che egli si trova ad abitare un edificio dalla struttura incoerente e composita.
Non si può proseguire nel “dalli al docente” che è la scorciatoia più semplice per non riflettere su un dato incontrovertibile: i decisori politici italiani, nella migliore delle ipotesi, hanno oscillato ed oscillano fra un ipotetico disegno riformatore caratterizzato da un provincialismo inconcludente, prova ne sia la discussione su temi come valutazione ed Invalsi, o da capolavori di approssimazione come il Clil (per non parlare, visto il tema di cui si discute, della barzelletta tragicomica della Geostoria a cui pure accenna il contributo di Scagliotti) ed un coerente disegno di smantellamento di senso comune della scuola pubblica statale (il tanto decantato riordino gelminiano caratterizzato da aporie anche relative all’esame di Stato che, inevitabilmente, verranno fuori il prossimo anno con le prime prove d’esame delle quinte riordinate) che passa anche attraverso la demolizione mediatica della struttura (giudicata come irriformabile e fonte di spesa improduttiva) e la demonizzazione della classe docente additata al pubblico ludibrio perché “fuori” dal nuovo mondo.
Solo che poi, nella foga demolitoria, scappa qualche argomento decisamente singolare. Mi riferisco all’idea ventilata da Cominelli del “baco” generazionale e cioè che l’incapacità a sviluppare l’analisi di alcuni periodi del 900 sarebbe legata ad una sorta di peccato originale dei docenti, il non averli studiati nei percorsi preuniversitari. Forse bisognerà informare Cominelli sui dati relativi all’età media dei docenti italiani, decisamente più vecchierelli che nel resto d’Europa. E questo significa che alcuni di essi quei periodi potrebbero, paradossalmente, addirittura averli vissuti da protagonisti piuttosto che analizzati da studiosi.
Ma per riprendere la posizione di chi parla di cornici normative nuove che dovrebbero generare automaticamente atteggiamenti didattici innovativi e diversi, si chiede la preside Fassorra se di tale aspettativa si fa interprete chi ha la responsabilità di predisporre le prove degli esami di Stato?
C’è in questi giorni, nelle scuole, una questione, non di carattere didattico, ma che pure è perfetta da raccontare per inquadrare il velleitarismo che accompagna certe ventate di novità. Dunque una disposizione di legge prevede la dematerializzazione, risparmiamo carta ed andiamo on line. Non mi riferisco tanto all’abortito-in-culla registro elettronico, quanto alla de-materializzazione prevista per i documenti certificativi come le pagelle.
Bene, fatta la legge, la cornice normativa nuova c’è, la applichiamo e via. Peccato, però, che un terzo abbondante delle famiglie italiane non abbia accesso ad Internet e che quando arriva il genitore piuttosto arrabbiato (dovrei usare un “francesismo” per render bene l’idea) che ti dice che non ha manco i soldi per pagare le bollette, altro che Internet e vuole sapere come si risolve, la risposta invariabilmente è: “Voi fate la domanda e noi la pagella ve la stampiamo…”.
E così la carta, invece che lasciare, raddoppia, ed allora la cornice normativa nuova, non inserita in una prospettiva sistematica, rischia di trasformarsi in un’arma contundente…