Più o meno nel 2050, ci saranno in circolazione nel nostro paese milioni di schizofrenici, sociopatici e disadattati. La nera profezia sembrerebbe provenire da uno di quegli estremisti, etichettati come “misogini” (anche quando si tratta di donne) e “arretrati”, che vedono nella sempre maggiore delega della maternità e della cura genitoriale le peggiori premesse per il futuro dell’attuale generazione infantile. E invece no: a enunciare l’incombere di una simile sventura è Remo Lucchi, storico patron di GFK Eurisko e autorità riconosciuta nel campo delle ricerche sociali e di mercato. Lucchi ha chiuso con l’infausta visione il seminario di presentazione della ricerca “Donne e uomini 2014”, che aggiorna la fotografia dei ruoli di genere nella società europea e italiana in particolare, ritratta nella Grande Mappa di GFK Eurisko.
Lucchi ha tenuto a precisare, preventivamente, di riconoscere alle donne ogni diritto ad evolvere socialmente com’è avvenuto negli ultimi 20 anni: un’evoluzione che le ha portate a rappresentare, nel 2013, il 70% del cluster sociale più avanzato, quello del “protagonismo”, composto dai leader in pensiero e azione della società. Per avere un’idea della portata del cambiamento, basti pensare che all’avvio della ricerca di Eurisko, a metà anni 70, la percentuale di donne e uomini “protagonisti” era esattamente invertita: 30% le une, 70% gli altri.
A quale prezzo? Le donne non hanno abbandonato sostanzialmente i loro ruoli tradizionali di madri, mogli e caregivers; ma hanno contemporaneamente iniziato a svilupparsi come professioniste e individui. Le loro aspirazioni e esigenze si sono avvicinate, sotto questo aspetto, a quelle degli uomini che presidiavano questi ruoli. Il risultato immediatamente osservabile, ha spiegato Lucchi, è il drastico calo delle nascite annue nel nostro paese, dimezzate rispetto agli anni 60 (da più di un milione a poco più di 500mila nuovi nati nel 2013). Ma c’è un’altra, ineludibile e preoccupante conseguenza: le donne che hanno avuto figli dedicano sempre meno tempo a trasferire loro fisicamente affetto. Si tratta di una trasformazione i cui effetti non sono immediatamente riscontrabili, ma che a lungo andare porta proprio alle nefaste conseguenze descritte inizialmente. Se è vero, infatti, che la mancanza di affetto – come ha ricordato Lucchi – provoca squilibri psicologici deleteri, i bambini di oggi, figli di madri sempre più (legittimamente) dedite alla carriera e a se stesse, domani saranno adulti squilibrati. In sostanza, quello che è stato vero per i neonati della DDR, sottratti in fasce alle madri operaie destinate a produrre per lo Stato e allevati in massa nei nidi pubblici ad apertura estesa, potrebbe ancora accadere: turbe, difficoltà di sviluppo, patologie sociali, immaturità affettiva.
Cosa fare allora? Se le donne non seguissero la loro, probabilmente ineluttabile, strada, nota d’altro canto Lucchi, sarebbero loro a denunciare patologie psicologiche e sociali: questo stato di cose non può, né deve quindi essere un problema delle donne. Secondo il suo punto di vista, sono invece la società e lo Stato a dover farsi carico del problema: detta così, è difficile trovarsi d’accordo con questa tesi, per la ragione stessa precisata da Lucchi poc’anzi – l’impossibilità di delegare l’affetto materno. I figli non sono dello Stato: ma nemmeno della società, vocabolo troppo generico che come tale rischia di risultare deresponsabilizzante. I figli sono di madri e padri, “donne e uomini” che nella società agiscono, e che possono perciò cambiarla. L’affermazione di Lucchi diventa più condivisibile se la direzione è quella mostrata nella presentazione di Paolo Anselmi, che ha parlato di prime conseguenze dell’avanzata delle donne in termini di una profonda revisione dei tempi e dei modi del vivere e del lavorare.
L’accoglimento del punto di vista femminile, della profonda differenza tra i generi che – com’è stato ricordato lungo tutto il seminario – rappresenta una ricchezza sociale, deve tradursi in ascolto delle esigenze: non solo di servizi, ma di maggiore flessibilità, di un welfare aziendale che metta in discussione il tabù degli orari, che parta dall’enfasi sul risultato invece che sulla presenza in ufficio, che superi le rigidità organizzative. In questo senso, si può e si deve fare molto: non solo per aiutare le donne a gestire meglio tutti i ruoli che rivestono, ma anche, e soprattutto, per il bene della società tutta, donne e uomini, di oggi – e di domani.