Sono amico di Gianni Mereghetti, che ha lanciato su queste pagine la provocazione sulla storia del Novecento. Gli invidio molte cose, il bene che vuole ai suoi ragazzi, la capacità di stare con loro, la passione e la competenza che ha per il cinema (io che sono praticamente un analfabeta dell’immagine). Sono totalmente d’accordo con lui che la storia non si può fare “in pillole”, che occorre cercare di far vedere ai nostri alunni la carne e il sangue, la vita, l’eroismo, la fatica, gli errori degli uomini e delle donne che hanno sudato prima di noi, che bisogna cercar di mostrare la realtà palpitante che sta dietro e sotto le astrazioni a cui troppo facilmente la storia è ridotta. E so molto bene (abbiamo perfino fatto un manuale per il biennio che cerca di stare a questo criterio) che questo richiede tempo, tanto tempo, perché è molto più rapido recitare una formuletta riassuntiva che entrare nei dettagli vivi di quel che ci sta dentro.



Però io da molti anni finisco il programma di storia con le Torri gemelle, o con la guerra in Afghanistan, o con il dibattito sulla legge elettorale italiana, e così via. Settimana scorsa a quelli di quarta ho promesso che l’anno prossimo arriveremo all’Ucraina. Come faccio? Semplice: scelgo. Scelgo a partire dalla terza: quando comincio con l’Anno Mille – che ci va un sacco di tempo, la maggior parte dei ragazzi crede ancora alla leggenda del “mille e non più mille” dell’Apocalisse, devi fargli leggere le fonti dell’epoca… – ho ben chiaro che voglio arrivare a oggi (o, almeno, a ieri). E allora mi chiedo: ma è proprio necessario che sappiano tutto il dettaglio – poniamo – degli scontri fra gli Stati italiani fra Duecento e Quattrocento? Che sappiano tutte le fasi della Guerra dei Trent’anni e l’elenco dei territori guadagnati e persi da ciascuno Stato nelle guerre del Settecento (tutte cose che canonicamente figurano nei nostri manuali e nelle verifiche della maggior parte dei miei colleghi)? Eccetera.



Certo, sono perfettamente consapevole del fatto che in questo modo io “sacrifico” le signorie del Rinascimento e la guerra dei Trent’anni, ma mi chiedo: che cosa è meglio sacrificare, la Guerra dei Trent’anni o quelle del Golfo? Le fazioni politiche dei comuni italiani o quelle della Seconda repubblica? Qualcuno fa, legittimamente, scelte diverse; ma dobbiamo essere consapevoli che, comunque, stiamo scegliendo: se scelgo di stare un mese sulle guerre del Settecento ho scelto di sacrificare le Torri gemelle, se scelgo di stare su guelfi e ghibellini ho scelto di non parlare di Berlinguer e di Moro.



Poi possiamo imprecare che abbiamo poco tempo, che la colpa non è nostra ma dei programmi e dei ministri che non capiscono quanto è importante la nostra materia (del resto, lo fanno i docenti di tutte le discipline, se il ministero comprendesse l’importanza di tutte faremmo almeno sessanta ore di scuola alla settimana, non trenta). Però io insegno oggi, in queste condizioni; e voglio essere io a scegliere, a decidere come muovermi: oggi, in queste condizioni, senza aspettare la scuola ideale che verrà forse quando sarò morto. Posso sbagliare, posso sacrificare cose che invece sarebbero fondamentali, aiutatemi a giudicare; ma preferisco sbagliare io, e prendermi io la responsabilità dei miei errori, e cambiare (lo faccio praticamente ogni anno) quando mi accorgo che ho sottovalutato una cosa e sopravvalutato un’altra.

Sono d’accordo con Gianni, un bravo professore non è quello che ha fatto tutti i capitoli, ha fatto scorrere davanti agli occhi dei suoi alunni tutte le date e i personaggi e i fenomeni dalla preistoria a oggi. Un bravo professore è uno che almeno in alcuni episodi è riuscito a far vedere loro l’umanità che c’è in gioco, i problemi, i criteri, i valori, le scelte che uomini e donne hanno fatto; così loro cominciano a intuire che se oggi l’Italia, l’Europa, il mondo sono fatti in un dato modo è perché ieri – un secolo fa, mille anni fa – qualcuno ha fatto certe scelte, ha preso certe strade, ha cominciato a costruire in una direzione piuttosto che in un’altra.

Mi permetto un’osservazione più generale sul metodo dell’insegnamento della storia, che molti non condivideranno, ma la mia esperienza è questa. Noi tutti siamo cresciuti dentro un’immagine lineare della storia, dal 3000 a.C. a ieri; ma non è realistica. La storia si impara a partire da un punto, da una questione, da una vicenda che diventa interessante; e da lì si comincia ad andare avanti e indietro, a cercare di capire da dove arriva e che cosa ha prodotto. Faccio un solo esempio. Il 17 settembre del 2009 c’è stato il massacro dei soldati italiani in Afghanistan. I ragazzi non sapevano niente, non avevano gli strumenti minimali per capire da dove sbucasse quell’evento; era proprio l’inizio dell’anno, e io ho colto la palla al balzo: abbiamo fatto la nascita dell’islam, le crociate, Lepanto e Vienna, la prima guerra mondiale con la fine dell’impero ottomano, le Torri gemelle… non c’è stato argomento che i ragazzi abbiano imparato di più. Poi, a partire da lì, abbiamo ricostruito gli altri argomenti che avevamo solo sfiorato – che a questo punto erano diventati domande aperte – che rientravano nel “programma” dell’anno. Alla fine abbiamo anche ricostruito una cronologia “lineare” delle questioni; ma è il punto d’arrivo, non di partenza.

Per finire. Che bello quando i ragazzi, gli ultimi mesi di scuola, tornano in classe e dicono: ho detto a mio papà − a mia mamma, al nonno − che a scuola abbiamo parlato di Berlinguer, di Moro, della caduta del Muro, e loro si sono messi a raccontare di sé, di quel che hanno visto, che avevano fatto… Che cosa ho “sacrificato” per arrivare fin lì? Una serie di vicende che, bene che fosse andata, mi avrebbero ripetuto nell’interrogazione, e si sarebbero dimenticati il giorno dopo. A me pare che scegliere io, e non lasciar scegliere al tempo, ai ministri, ai programmi, valga la pena.

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