L’intervento su queste colonne di Giuseppe Santoli riapre il tema dell’esame di stato conclusivo del primo ciclo, come è stato rinominato da qualche anno l’esame di licenza media. Al di là della sua obbligatorietà in ossequio alla Costituzione, credo sia comunque importante che i ragazzi abbiano l’opportunità di mettersi alla prova in una situazione che richiede un certo impegno come può essere un esame: come ha bene sottolineato il professor Chiosso, non è infrequente registrare negli ultimi anni una crescente difficoltà da parte dei ragazzi a concepire un impegno che non dia risultato e soddisfazione immediata, se non addirittura il rifiuto davanti ad ogni tipo di fatica, nonché una diminuita capacità di progettazione e realizzazione di un percorso di conoscenza personale. Dopo otto anni di scuola penso sia opportuno che gli alunni debbano fare i conti con una prova articolata, che si svolge nel tempo limitato di una settimana o dieci giorni, per la quale è necessario saper organizzare le proprie risorse, saper operare delle sintesi delle conoscenze acquisite, sapersi muovere senza affanno tra discipline diverse, saper riconoscere nessi, saper esprimere un pensiero personale su un argomento incontrato a scuola o su una propria esperienza.
Quanto all’idea di eliminare l’esame di terza media per far spazio alla certificazione delle competenze al termine dell’obbligo scolastico, ovvero alla fine del decimo anno scolare, rilevo solo che al momento mi sembra un’ipotesi poco praticabile, anche in considerazione del fatto che non esiste un solo percorso che si completi in due anni scolastici dopo la scuola secondaria di primo grado; credo inoltre che una riflessione sulla natura e lo scopo della scuola media abbia bisogno di ben altro spazio che non quello di un articolo. Senza addentrarci perciò in questo tipo di riflessioni e senza entrare nel merito dell’efficacia delle riforme che hanno investito nell’ultima dozzina di anni la scuola media, che comunque risulta essere il segmento scolare da sempre più problematico, limitiamoci ad alcune osservazioni a proposito dell’esame conclusivo.
Il suo impianto ha di fatto sostanzialmente resistito ai processi di riforma del primo ciclo, modificandosi negli anni a colpi di circolari ministeriali solo per aggiunte successive: la prova nazionale predisposta dall’Invalsi, composta da una prova di italiano e una di matematica, e la prova scritta della seconda lingua comunitaria. In tale modo è diventata una prova più articolata e complessa della maturità; capita quindi di dover affrontare sei distinte prove scritte e una orale in cinque o sei giorni consecutivi, uno sforzo non banale. Per alleggerire l’esame, da più parti si è suggerito di riconsiderare le prove di italiano e matematica e qualcuno si è spinto a ipotizzare la loro esclusione in quanto le discipline sono già previste nella prova Invalsi, oppure, all’opposto, di escludere la prova nazionale.
Quanto a quest’ultima, poiché è inserita nel regolamento della valutazione, la sua eventuale estromissione avrebbe bisogno di un iter normativo apposito; vale la pena osservare che le prove non sono ridondanti, in italiano hanno a tema la lettura e la grammatica a differenza della prova scritta tradizionale che richiede la produzione di un testo, in matematica non ci possono essere, visto la natura della prova, quesiti che richiedono ad esempio – come invece è nel compito scritto “tradizionale” − di risolvere un problema articolato e di dimostrare la padronanza nell’uso coordinato dei diversi linguaggi come nella stesura della soluzione di un problema geometrico.
Chiedo in maniera non retorica se non sia il caso di tornare alla valutazione della seconda lingua comunitaria in forma solo orale, privilegiando gli aspetti comunicativi, anche tenendo conto del fatto che per molti ragazzi questa è l’ultima occasione di praticare il francese o lo spagnolo.
Discorso a parte è la formulazione del voto conclusivo. Non si può non associarsi alle critiche che investono questo aspetto: è inaccettabile che il percorso triennale e, a ben vedere, di tutto il primo ciclo, contribuisca al voto conclusivo attraverso il voto di idoneità il cui peso è equivalente a quello di una sola prova scritta. Prendendo a paragone l’esame di maturità, in cui il credito scolastico contribuisce al 25% del voto finale, è auspicabile che il peso del giudizio di idoneità che, come recita la CM 48/2012, “è espresso in decimi, considerando il percorso scolastico complessivo compiuto dall’allievo nella scuola secondaria di primo grado” venga aumentato e in una misura perfino maggiore, ridimensionando il peso delle prove scritte; attualmente esse contribuiscono al voto finale per i 5/7, più del 70%, contro il 45% della maturità. In questo modo si può anche venire incontro alle critiche, alcune delle quali condivisibili, richiamate nell’articolo di Santoli, sulla presenza all’interno dell’esame della prova Invalsi.
Tornando a quel che succede nelle scuole, resta da chiedersi se le prove proposte dalle commissioni riescano a far emergere positivamente il cammino degli allievi: i temi, gli esercizi delle lingue straniere, i quesiti di matematica richiedono davvero un lavoro che ha bisogno − seguendo George Polya − “di un certo grado di indipendenza, di giudizio, di originalità e di creatività” oppure si accontentino che i ragazzi replichino in modo acritico delle procedure. Credo che si giochi in questo la possibilità per un alunno di mettersi effettivamente alla prova e di avere una reale soddisfazione, come dimostra il luccicare negli occhi di chi è sicuro di aver fatto bene alla fine del proprio esame. E gli occhi luccicano più frequentemente di quanto si possa pensare.