Si tratta del cosiddetto tema di attualità della prima prova dell’esame di Stato 2014, il tema di ordine generale. Quest’anno è stata scelta da commentare una frase dell’architetto e senatore a vita Renzo Piano, tratta da un suo articolo pubblicato da Il Sole 24 Ore, “Rammendo delle periferie”. Ecco la frase completa su cui i candidati hanno dovuto riflettere elaborando idee e riflessioni: “Siamo un paese straordinario e bellissimo ma allo stesso tempo fragile. E’ fragile il paesaggio e sono fragili le città, in particolare le periferie dove nessuno ha speso tempo e denaro per far manutenzione. Ma sono proprio le periferie la città del futuro, quella dove si concentra l’energia umana e quella che lasceremo in eredità ai nostri figli. C’è un bisogno di una gigantesca opera di rammendo e ci vogliono delle idee. Le periferie sono la città del futuro, non fotogeniche d’accordo, anzi spesso un deserto o un dormitorio ma ricche di umanità e quindi il destino delle città sono le periferie Spesso alla parola periferia si associa il termine degrado. Mi chiedo: questo vogliamo lasciare in eredità? Le periferie sono la grande scommessa urbana dei prossimi decenni. Diventeranno o no pezzi di città?”.
Abbiamo chiesto alla giornalista Monica Mondo di svolgere per ilSussidiario.net questo tema.



No, le periferie non sono il futuro. Il futuro della gente è al centro, il destino delle persone e delle città che abitano è al centro. Al centro dell’attenzione delle istituzioni; in un centro vivo e pulsante, umano e curato, frequentato ed amato. Bisogna allargare i centri, puntare sui centri, allargarli fino ad inglobare le periferie, non viceversa. Può essere una scommessa per gli urbanisti, e nei decenni passati l’hanno colta e perduta: costruire, arredare le periferie è parsa la sfida della modernità, ci si sono impegnati i nostri cervelli migliori. Ma hanno sbagliato totalmente metodo, progetto, idea, e Le Vele di Napoli, lo Zen di Palermo,  il Corviale romano sono lì a testimoniare la presunzione e l’ideologia, il distacco dal vissuto vero. Per fare una città, ce l’hanno insegnato i comuni medievali, si parte dalla piazza, e dalla chiesa. I riferimenti civili e religiosi,  su cui far svettare un pennone e un campanile, una bandiera e una croce. Intorno, si aprono naturalmente le abitazioni, che ambiscono alla vicinanza col centro, e poi le botteghe, e i luoghi d’incontro, le taverne, gli ostelli, l’ospedale e le scuole. 



Non si parte dalle case, che nascono intorno a qualcosa, di cui respirano e di cui hanno bisogno, non si parte dagli ipermercati, da luoghi di socialità anonimi e imposti. Non si inventano architetture fantascientifiche  da riviste patinate : la gente vuole appartamenti col  balcone, per lo stendino e i vasi di gerani,  e finestre cui appendere le tende, e un cortile, o un ballatoio, piccini, ma luminosi e adatti a chiacchierare con le amiche, a far scorrazzare i bambini. 

La gente non vuol stare perì, intorno, ma dentro: e se la scommessa del domani è puntare sulle periferie, dev’essere per avvicinarle, con collegamenti sicuri e veloci, per colorarle delle tinte calde dei nostri quartieri antichi. La manutenzione non basta, se non ti piace quel che devi mantenere; se i quartieri esterni alle nostre città sono un deserto o un dormitorio, è perché le persone non li abitano se non per dormire, col sogno di fuggirne presto. Vi si accampano allora reietti e delinquenti, e né gli uni né gli altri dovrebbero essere tollerati con colpevole silenzio.  Certo che si può parlare di degrado, per forza si tratta di luoghi fragili. Non per le persone che vi abitano, è così facile da capire, così naturale: un uomo che non vede il cielo, che non ha prati se non spelacchiati e grigi, che non ha luci e colori, ma stradoni con nomi infingardi (in genere scelgono i fiori, Viale dei gigli, Strada delle ginestre, dove non ci sono gigli e ginestre, ma fili spinati e gomme d’auto bruciate, al massimo qualche spavaldo e temerario papavero si affaccia alla polvere in questi giorni di inizio estate).



Come si fa ad levarsi al mattino e sorridere, se non hai un paesaggio che ti sorride, come si fa ad essere desiderosi di entrare nel giorno,  se andare a scuola o al lavoro è un viaggio, una litania di attese in luoghi squallidi, di traversate  in pullman bestiame, per tornare quand’è buio, e chiudersi in casa.

Certo che nelle periferie si concentra l’energia umana: le abita chi fa i lavori più duri, chi fatica di più per emergere e raggiungere i sogni, chi è abituato a  sacrifici e rinunce. Ma le energie possono anche volgersi al male, se fiaccate dall’ingiustizia e dalla trascuratezza, se segnate dall’impotenza a cambiare.  Possono diventare fragili, e rendere fragili le vite, senza più desideri e speranze. Pazienza se sarà fragile il paese: i parametri per giudicarne la struttura non sono quelli delle agenzie di rating. E’ un delitto che lo siano gli uomini e le donne, che le loro esistenze diventino periferie, che la ricchezza di umanità si spenga, o si trasformi in rabbia, in follia.

Non c’è altra strada di quella che indica, che cerca il papa: le periferie, bisogna saperle attraversare, non studiarle da un tavolino ministeriale. Bisogna andarle a cercare, le persone, guardarle in faccia e ascoltarle, coinvolgerle, renderle protagoniste, dar loro la certezza di  quel che valgono e si meritano. Non bastano le analisi sociologiche, gli intenti della politica, bisogna muoversi, riempire le periferie e trasformarle, vivificarle di carità.