“Violenza e non-violenza: due volti del Novecento”. E’ questo il titolo della traccia della tipologia B (ambito storico-politico) che il ministero dell’Istruzione ha proposto stamattina ai maturandi che hanno affrontato l’esame di maturità 2014. Il fascicolo allegato al tema presentava testi ed estratti a firma di George Mosse, arrivando fino ad Hannah Arendt e passando anche per il discorso di Martin Luter King e le parole di Gandhi. Ecco come il sussidiario.net ha svolto la prova grazie al contributo di Renato Farina.
La lotta tra violenza e non-violenza. Cosa divide e cosa unisce il Novecento e questo secolo
C’è posto per la non-violenza oggi? Intendiamoci. Come teoria bislacca, retorica dell’impossibile, lo sappiamo bene che ha un sacco di spazio, la trovi dappertutto, se ne possono riempire ceste. Ma può reggere i colpi della storia in quanto realistica categoria politica che fa vincere il bene e la verità sul male e sui violenti? Non-violenza, cioè, tra Stati e dentro la vita degli Stati, elevata al rango di metodo del bene comune universale?
Tutto pare negarlo. Oggi persino più del Novecento. In quel secolo violenza e non-violenza si fronteggiavano. A volte – di certo più spesso – vinse la prima, altre – più raramente – la seconda. Ma c’era partita. Oggi? Sì, ma sembrano essere eroismi senza speranza di vittoria, almeno in questa vita. Nel secolo scorso, nell’orribile secolo breve, qualcosa di diverso parve invece segnare una via nuova, contro le logiche di potenza belluina.
Un esempio? Gandhi, che è stato l’inventore della non-violenza, non intesa come arte pigra degli imbelli, ma come forza della verità. Gandhi vinse. L’indipendenza dell’India, l’emancipazione dell’immenso popolo del sub-continente cominciò dalla sua non-violenza attiva, protagonista della storia. Secondo esempio? La straordinaria vittoria di Solidarnosc in Polonia, la caduta del comunismo in Unione Sovietica. Figure di credenti, come Aleksandr Solgenitsyn, ma anche di laici come Vaclav Havel: intellettuali, scrittori, ma anzitutto uomini carichi di una forza impressionante.
In questo senso l’esperienza della guerra del secolo scorso è ambivalente. È vero che – come scrive lo storico George L. Mosse – seminò il mito della violenza nel profondo degli individui, inducendoli a pensare la vita quotidiana come teatro di conflitto. Ed è evidente che le due guerre mondiali furono la fornace in cui si forgiarono le ideologie più distruttive della storia, il comunismo e il nazismo, perché la violenza intride gli uomini di sé, e alla fine si trova sempre qualche intellettuale che la esalta come elemento purificatore e progressista in una sorta di vitalismo fine a se stesso, secondo l’accorata denuncia di Hannah Arendt. Ma esiste lo spazio della libertà. Il misterioso crepuscolo della coscienza dove gli essere umani scelgono un’altra strada.
Ai pensatori e ai politici che esaltano la carica positiva della violenza come motore della storia, si oppone la potente testimonianza delle vittime inermi, l’esperienza del dolore per la morte dei propri cari, specie degli innocenti, che temprò grandi spiriti protesi a costruire cattedrali di pace tra le nazioni.
Questo è stato il caso della costruzione dell’Europa nella mente dei tre statisti cristiani De Gasperi, Schumann e Adenauer. Per loro la non-violenza aveva una caratteristica di realismo impressionante. Conoscevano bene la natura dell’uomo. Cercarono di costruire reti di interessi comuni tra Stati e popoli che nei secoli si erano dati guerra per il carbone, per la religione, per l’acciaio, per il grano. Hanno mostrato che la non-violenza come metodo, il cui esito è la pace, conviene umanamente. E se si usa la ragione si può mettere la museruola all’istinto dell’homo homini lupus (Hobbes).
Ora questo nuovo secolo pare sancire che questa strada è sprofondata nelle paludi dell’egoismo individuale e di popoli.
È come se il mondo fosse preda di due forze dominanti, opposte ma in fondo simili. Per semplificare: nichilismo gaio, relativismo assoluto, rinuncia alla ricerca della verità in Occidente. Approdo in un individualismo esasperato che si trasforma in conformismo di massa, vuoto spirituale, pacifismo indolente con esplosioni di ira assassina. In Oriente, affermazione di una verità che dichiara guerra alla libertà e con ciò si palesa come menzogna, e dunque violenza.
Eppure, in Oriente come in Occidente, di qualsiasi cultura si sia stati imbevuti finora, emergono cose strane, fuori da questi schemi alla fine disperati.
Qualcosa di imprevisto, ecco la sola speranza. E non è affatto sciocco dircelo. Anzi… La cosa più razionale dinanzi al dilagare della violenza è proprio lasciarsi stupire dalla testimonianza misteriosa di martiri che serenamente offrono la loro vita per qualcosa di più della loro vita, e paiono cose infinitesime, eppure spezzano la linea continua che sprofonda verso l’abisso. Sono minoranze creative. Creative anche semplicemente nel modo di offrirsi al carnefice. Penso ad Asja Bibi in Pakistan, sbattuta in carcere e condannata a morte perché cristiana, e a Salman Taseer, governatore musulmano della provincia del Punjab assassinato da 27 colpi di pistola perché aveva osato difenderla, la stessa sorte toccata al suo amico, il ministro cristiano Shahbaz Bhatti. A Meriam Yahia Ibrahim Ishag, la sposa sudanese, che oppone al boia la sua fedeltà allo sposo e al suo Signore. Alle testimonianze che senza giungere al versamento del sangue però inducono nuove energie positive in chi le guarda. E le energie positive sono sempre non-violente, anche quando devono esercitare la forza per difendere i deboli. Alla moglie di Schumacher che – come tanti altri sconosciuti – dedica la vita a guardare negli occhi il marito per comunicargli il bene. In fondo, è la logica dell’amore.
Insomma, la battaglia non è perduta. Del resto violenza e non-violenza si fronteggeranno sempre. Non esiste una meccanica della storia, una specie di chimica che determini il futuro. Esiste la libertà, fosse pure un’unghia di libertà, sotto il peggiore dei tiranni. E da lì, da quel sì per amore, si può ricominciare.