Le diverse tracce offerte quest’anno agli studenti per la prova di italiano della Maturità ci ricordano, senza troppa possibilità di appello, che il nostro è e continua a essere un paese per vecchi. È come leggere gli esiti delle analisi del sangue di un ventenne e scoprire che tutto va bene, certo, però sembrano le analisi di un settantenne. Sangue vecchio. 



Non che le tracce, di per sé, siano da buttare, tutt’altro. La prova di analisi del testo ci presenta un Quasimodo che sembra un Bignami di tematiche novecentesche (nella versione un po’ rurale tipica dell’Italia, con fanciulli prima danzanti e poi nudi, il fuoco della luna, orme di cavalli, nuvole che si levano dagli alberi e gazze – anche se non possiamo perdonargli “l’erba così verde”, quella no perdìo).  



La frase più interessante di questa traccia sta nella biografia di Quasimodo, dove si legge che “l’evoluzione della sua poesia riflette la storia della poesia contemporanea italiana”. Impariamo così che la poesia è una cosa che si evolve e che riflette: due categorie estetiche, come si vede, tutt’altro che scontate, specialmente a proposito di questa poesia.

Anche le altre tracce portano il segno di un’attitudine vecchile, liceocentrica. Nei saggi brevi, o articoli di giornale (sono indicazioni vaghe, il cui scopo è di evitare che uno scriva parole in libertà), il tono generale è serioso, da ometti, i temi perlopiù alternativi ma al tempo stesso alla moda: la cultura del dono, i nuovi doveri del cittadino globale, violenza e nonviolenza, la tecnologia come nuova religione. Tutti spunti sacrosanti, accompagnati da scelte di brani che ne sottolineano il carattere controverso, anche se l’immagine complessiva è da rendering: tutti alti e magri, tutti generosi, tutti tolleranti, tutti in bicicletta, tutti certi che una giornata di sole vale molto più di una giornata passata al chiuso su Twitter. 



Se, infine, la traccia del tema generale è semplicemente illeggibile (della serie: basta che diciate qualcosa), destinata perciò a tutti i non-liceali, più arguta è quella del tema storico, che sembra fatta per mandare fuori tema gli audaci: vi si chiedono infatti solo le differenze tra 1914 e 2014, e io ci scommetto che in tanti hanno parlato (anche) delle analogie

In definitiva. Mi domando cosa c’entra tutto questo con gli allievi degli istituti professionali, i quali allievi devono affrontare questa prova dopo un percorso scolastico tortuoso e avaro di soddisfazioni intellettuali: persone che non solo non hanno mai letto Dostoevskij, ma anche su film come Matrix risultano impreparati: troppo vecchio.

Tutto è troppo vecchio, that’s the Question. Una generazione un po’ sgangherata di cinquantenni, che per forza di cose non ha saputo inventare nuove vie per comunicare la letteratura, la scienza, la filosofia in modo da farle risultare contemporanee ai loro ragazzi, ha prodotto queste tracce che sembrano la proiezione di un desiderio anch’esso molto liceale, vagamente cechoviano: quello di sentire i loro allievi diciottenni mettersi d’un tratto a parlare come tanti cinquantenni, con ponderatezza, nozione di causa, citazioni dotte. 

Penso alla quantità esorbitante di ragazzi in realtà intelligentissimi, che di questi testi non avranno capito, ne sono certo, assolutamente nulla perché non introdotti a questi discorsi. Ho insomma la sensazione che per il mondo adulto italiano i “giovani” si dividano in due categorie: i bravi ragazzi e quelli persi, da un lato i professori in erba e dall’altro quelli che saranno sempre e soltanto dei poveracci, o delle canaglie. 

E questo non è che un piccolo sintomo, un sintomo minore di uno dei mali maggiori dell’Italia: quello di non sapersi schiodare dal proprio immaginario vetusto. Siamo un Paese pieno di ingegno, ma quando ci facciamo un’immagine di noi stessi siamo ancora fermi al Liceo Classico, a Quasimodo, a Totò e Fabrizi.