Leggo le sette tracce della prima prova degli esami di Stato, e gli argomenti su cui viene chiesto di scrivere un saggio o un tema: il dono, le nuove responsabilità, violenza e non violenza, la tecnologia pervasiva, il confronto fra l’Europa del 1914 e quella del 2014, le periferie delle città. 

Ho fatto tanti anni fa il mio esame di maturità, ma stavolta mi sento annegare. Non ho, come giustamente i maturandi, il problema di scegliere quale traccia fare. Ma leggendole una dopo l’altra, davvero, mi sento annegare. Ma guarda quanto si fidano di me! Vogliono sapere se gli uomini del nostro tempo sono ancora capaci di donare davvero, cosa fare rispetto al clima, agli immigrati, ai bancomat e alle lim, com’è cambiata l’Europa in cento anni, se le periferie diventeranno o no le città del futuro. No, davvero, annego. In un eccesso di megalomania, potrei dei remi fare ali al folle volo, sentendo di avere in sei ore in mano il destino del mondo. Sì, perché se veramente si fidassero di me, domani i politici, le industrie, gli architetti, la rete, potrebbero cambiare. Se io in queste sei ore trovassi la soluzione a qualcuno di questi enormi problemi. 



E invece annego, non c’è che dire, i miei remi non sono ali. Non ci credo che queste mie pagine possano diventare decisive per qualcuno. Il compito che mi rimane, in fondo, è soltanto un’illimitata possibilità di fare un’omelia. Di dire la mia su un argomento sterminato su cui, credetemi, so davvero poco. Non sono un architetto per sapere se le periferie diventeranno le città del futuro; nel dubbio, penso che bisognerà scrivere che sì, lo diventeranno, e magari citare le periferie di Papa Francesco. Non capisco niente di climatologia, né di decremento demografico, né di immigrazione, ma penso che bisognerà scrivere che bisogna rispettare il clima, e anche gli stranieri. Non ho mai fatto una guerra (qualche volta, è vero, sono istintivo e anche violento, ma non sarà mica il caso di confessarlo in queste pagine), ma tra violenza e non violenza penso che bisognerà scrivere che è meglio la non violenza. Smanetto dalla mattina alla sera su internet, sono invaso dalla tecnologia, ma penso che bisognerà scrivere che la tecnologia è bella però dobbiamo saperci dare dei limiti. Quanto al dono, metto spesso i soldi per i regali, ma penso che bisognerà scrivere che invece no, bisogna saper donare davvero. 



Insomma, le tracce hanno già dentro lo svolgimento giusto, quello che bisognerà scrivere. Essere retorici credendo di essere intelligenti: non c’è che dire, mi hanno ingannato per bene. Ho diritto anch’io al mio quarto d’ora, anzi alle mie sei ore, di opinionismo, di omelia. Forse la prima prova serve a questo: a valutare le mie competenze sui luoghi comuni, a vedere quanto sono stato ammaestrato a dire la mia su cose che in realtà non conosco.

Forse questo voleva da me la scuola: dirmi che la conoscenza non ha niente di rigoroso. Una canzone di Daniele Silvestri potrebbe essere il suo slogan: «non discutere di ciò che sai, su tutto il resto esprimi sempre un’opinione». Io conoscevo la letteratura, ma qui non ce n’è, anche nel saggio artistico-letterario mi capita quasi per sbaglio di incontrare una sola scrittrice. Ed era la mia prova, quella di italiano. Forse, appunto, non vogliono che io dia retta a ciò che vorrei sapere, alla letteratura, che diventi un critico letterario, ma che diventi un buon predicatore, un buon opinionista. 



Però un poeta c’è, uno solo, alla prima delle sette pagine. Si chiama Quasimodo, e il primo verso mi folgora: «Forse è un segno vero della vita». Poi racconta di «fanciulli» che «danzano», «nel fuoco della luna», della «memoria» che affiora, portandogli il «vento del sud», e portandolo tra i «fanciulli» della sua terra amata lontana, verso cui vorrebbe spingere la luna. Eccolo, «un segno vero della vita», ecco un gesto di «pietà», ecco un momento in cui la vita accade. È la svolta che cercavo: non sono più io a dover pontificare, ma inizio a voler rubare gli occhi di Quasimodo, a guardare se c’è un posto, un momento, in cui la vita accade. La poesia è fatta da chi sa che non bisogna passare dalle parole ai fatti, ma dai fatti alle parole. Tutto il contrario delle prediche. Quasimodo c’è riuscito, e vorrei riuscirci anch’io. Guardando fanciulli che danzano oppure queste tracce. Che rileggo. Ora sì, cercando «un segno vero della vita», e non gli arzigogoli dei miei pensieri inutili. 

Mi accorgo che di segni veri ce ne sono tanti. La citazione di Adorno è una bomba: mi giudica dalla testa ai piedi, quando mi lancia la sfida di «pensare l’altro come un soggetto». Accadendo. E anche la storia del primo donatore di un rene. E il fratellino di Grazia Deledda. Non annego più, ho trovato la barca, ma il ponte è stato Quasimodo: salgo sulla traccia del dono. Ma non per parlare del dono, bensì per accorgermi del dono che c’è lì dentro, del dono che quella traccia è. 

Ecco la mia inaspettata, nuova responsabilità. Sono la periferia diventata città. Evito la violenza di prendermi in giro. Non mi sento più un robot da esami. Posso scrivere una prima prova che non sia «irrelata» come un «fondo di magazzino». Ora che «un segno vero della vita», cioè lo sguardo di Quasimodo, si è rivelato il mio «dono». Nessuna pretesa di cambiare il mondo. Un dono alla commissione sì, forse «senza riceverne in cambio alcunché». Sì, vorrei regalare la vita che accade, in mezzo a questa recita di opinionisti. Chissà se qualcun altro ha avvertito, mentre parlava del dono, la gratitudine per un dono ricevuto, se ha sentito di essere ridonato a se stesso. «Donare se stessi» non è più una frase su cui pontificare. Perché ora un me stesso l’ho scoperto, lo scopro. C’è voluto, tra le chiacchiere della prima prova, «un segno vero della vita». Per accorgermi di questo dono: che la vita ha qualcosa da dire a me, non sono io a dover trovare qualcosa da dire sulla vita.