Bisognerebbe chiamarlo esame di Stato, ma se provate a girare per le aule e i corridoi sentirete parlare ancora della vecchia Maturità. Sono passati 16 anni da quando è toccata a me: allora il voto era in sessantesimi, la commissione era composta solo da docenti esterni, eccezion fatta per un interno con compiti che all’epoca mi parevano prettamente diplomatici, o assimilabili alle compagnie della buona morte che scortano condannato al patibolo, tentando di alleviargli la pena.
Con gli anni è arrivata la maturità con la commissione interna, e il voto in centesimi; ora il voto è ancora in centesimi, ma la commissione è suddivisa tra di Stato… Insomma: guardando alla storia recente, si direbbe che le cose siano cambiate e continuino a cambiare, e non di poco.
Eppure esiste e resiste una prospettiva, un comune sentire, che nel tempo non si è modificato: la percezione della Maturità come snodo profondo dell’esistenza, come valico esistenziale, come dogana lungo il confine tra un prima e un dopo carichi di significati reali e di valenze simboliche.
Abbiamo perso, nella società liquida e globale, molti riti di passaggio e di iniziazione. Le feste dei coscritti sopravvivono solo in alcuni paesi di montagna, altrove sono un ricordo di nonni e genitori. L’abolizione della leva obbligatoria ha eliminato il momento (positivo o negativo, ma comunque rilevante) dei “Tre giorni”, dell’ingresso nell’età adulta che mia nonna sintetizzava, in barba alla Repubblica, con il detto “Adesso te sì bon anca pal Re!”. Ecco: la Maturità è dunque vissuta come uno degli ultimi riti collettivi di maturazione, e in un mondo che cambia rapidamente, e nel quale padri e figli sembrano avere poco o nulla a che spartire, sembra dare sicurezza e senso di appartenenza la consapevolezza che quel momento è stato vissuto, più o meno nella stessa maniera, da fratelli maggiori, zii, genitori.
Proprio la formalizzazione di precise ritualità rispettate negli anni sembra confermare questo ruolo quasi più sociale che educativo dell’esame di Stato: l’attesa delle materie di seconda prova e di colloquio orale; l’attesa dei nomi dei professori che comporranno la commissione; la notte prima della prova scritta di italiano, da molti passata in preghiera come i cavalieri medievali prima dell’investitura; l’estrazione della lettera con cui si inizieranno i colloqui; la spasmodica aspettativa per i tabelloni con i voti.
Chi ha partecipato ad una Maturità in qualità di docente sa bene, infine, quanto di simbolico e di catartico vi sia, specie in questo periodo di digitalizzazione imperante, nel rito estremo dei sigilli di ceralacca applicati al “pacco” contenente le prove scritte e i verbali dell’esame: quasi un viatico laico, con cui lo Stato imbalsama e seppellisce nella cripta dell’archivio scolastico le tracce estreme degli adolescenti che già non sono più, e che, divenuti adulti, si avviano per diverse strade, finalmente emancipati dal mondo della “scuola”.
Ma, a ben vedere, una differenza tra ieri e oggi c’è: l’anticipazione dei test di ammissione all’università ha in parte sottratto senso e, mi vien da dire, “sacralità” all’esame di Maturità. È come quando un alpinista oltrepassa una forcella e arriva al bivacco, lasciandosi la cima alle spalle: l’ultima fatica deve ancora essere fatta, ma in un certo qual modo egli si sente già arrivato, sa che, comunque andrà il giorno seguente, il rifugio sarà lì ad attenderlo.
Infatti non posso negare che, a guardare i miei studenti di quinta, quest’anno noto forse una maggiore rilassatezza, una consapevolezza di sé che raramente ho visto negli anni scorsi: un esame lo hanno già sostenuto, e la risposta che ne hanno ricavato, sia essa stata positiva o negativa, ha permesso comunque loro di conoscersi meglio. Forse è questo il motivo per cui, per la prima volta, mi sembra che gli studenti diano retta ai consigli di stare sereni, di non farsi prendere da ansie inutili, di essere coscienti del fatto che l’esame di Stato, per quanto contenga al suo interno una dose ineliminabile di casualità (la famosa domanda sull’unico autore che non si è ripassato la sera prima!), misura un percorso quinquennale, non certo una singola prestazione.
O forse non è nemmeno questa, la vera ragione della relativa rilassatezza dei miei studenti. Forse non è nemmeno rilassatezza. Forse è rassegnazione. Nell’età che più di ogni altra dovrebbe essere dominata dallo slancio, dalla sfida, dalla scommessa, la nostra società ha instillato la perplessità, il dubbio e la paura nel futuro: suona la campana, ho finito, bene o male, la mia lezione, ora c’è ricreazione. Una studentessa mi chiede un parere sul suo approfondimento per il colloquio, mi fermo e chiacchieriamo qualche minuto, provo a darle qualche dritta. Alla fine le domando cosa farà, dopo. Economia, risponde. Un altro proverà Giurisprudenza, altri ancora Fisica, Matematica, Biologia, Psicologia. Riusciranno a finire? E quando finiranno, la disoccupazione giovanile sarà ancora al 42,5%? Ce la faranno, questi ragazzi pronti a spaccare il mondo, a lasciare il segno nella loro epoca?
Li conosco da tre anni, siamo partiti dai poeti siciliani e siamo arrivati a Gadda. C’è chi ha sintesi, chi organizza i paragrafi come fossero blocchi di marmo squadrati perfettamente, chi non studia così tanto ma afferra il concetto e si porta a casa la sufficienza, chi studia ma dimentica sempre un apostrofo, chi fa ancora fatica a parlare di fronte ai compagni, chi al contrario dovrebbe essere sedato per restare in silenzio. Penso al mondo che li aspetta fuori, e vorrei aver spiegato meno e chiacchierato di più. Posto che io abbia qualcosa da dire loro, avrei perlomeno potuto capirli meglio, dar loro un po’ più di coraggio, perché credo che ne avranno bisogno più di me alla loro età.
Sebbene anagraficamente sia collocabile nella fascia di chi soffre la crisi, mi sento un privilegiato di fronte al futuro che attende questi diciannovenni. Quando sono uscito dal liceo, per la mia generazione il meccanismo era chiaro, e così ci veniva presentato, in una sorta di equazione resa vera dalla storia recente del nostro paese: avremmo fatto l’università, ci saremmo laureati, saremmo andati a costituire i futuri “quadri” della società. Avvocati, medici, ingegneri… Ricordo ancora la prima volta che udii un nostro insegnante raccontarci questa storia dei “futuri quadri”. Finsi di capire, e finsi di interessarmene: volevo, prima di tutto, finire, uscire di lì; poco mi importava se mi sarebbe, o meno, toccato in sorte di fare il quadro appeso al muro dello Stato.
Il meccanismo ci pareva oliato, e la macchina pareva dover durare in eterno: chiunque facesse Giurisprudenza diventava avvocato, chiunque facesse Medicina, diventava medico.
Poi le cose sono cambiate: sembra che questa generazione di maturandi sarà la prima a vivere peggio rispetto ai propri genitori. Sarà per via del 2014 e dell’imminente centenario della Grande Guerra, ma a volte mi pare di essere di fronte a dei nuovi ragazzi del ’99: mandati allo sbaraglio, inconsci di quanto di preciso sta accadendo, fiduciosi, nonostante tutto, di chi li ha portati fin qui. E, come per i ragazzi del ’99, questa generazione rischia di essere cancellata, di non aver peso: di vivere in un precariato esistenziale, di non arrivare a sperimentare la stabilità sociale ed economica necessaria per fondare un progetto di vita. E la colpa non è loro.
Ci sono due giudizi sugli adolescenti che mi fanno drizzare i capelli, e purtroppo in questi dieci anni di insegnamento mi è capitato di sentirli, e nemmeno troppo di rado, anche sulle labbra di altri docenti.
Primo giudizio: Questa generazione ha tutto, di cosa si lamenta? In primo luogo credo che si debba rettificare: non hanno tutto, ma hanno ricevuto tutto, senza possibilità di rifiuto. Molte generazioni hanno avuto modo di combattere la loro guerra contro “il vecchio”, di affermare dinamicamente e per antitesi la loro identità contro uno status quo preesistente e da loro considerato sbagliato, o almeno perfettibile. Le ultime generazioni sono state private degli strumenti stessi della rivolta, della rottura.
La vera dialettica politica del XXI secolo a mio avviso non sarà partitica, ma anagrafica. Il sistema gerontocratico in cui purtroppo viviamo è frutto di una netta sperequazione tra chi, fino a 15 anni fa, ha avuto molto (qualche esempio: pensionamenti anticipati, assunzioni facili, frequente aumento dei salari, accesso al credito semplice…), e chi oggi è costretto a bersi i dolci veleni del passato recente: se infatti da un lato i giovani hanno tutto, dall’altro questo tutto ha un caro prezzo, poiché impedisce loro di costruirsi, anche con rischi e fatiche, una vita autosufficiente.
Secondo giudizio: Ogni anno ci arrivano studenti peggiori! Siamo nel tòpos dei mala tempora, e, per contrapposizione, del mito del passato aureo quando si stava meglio, quando, citando ancora mia nonna, “si saltavano i fossi per lungo”. Giudizio molto pericoloso questo, perché da un lato rischia di nascondere un alibi utile al docente che, avendo a che fare con “studenti scarsi”, è giustificato nel tirare a campare, nel non impegnarsi a fondo, nel fare quel che si può perché, tanto, gli studenti sono quel che sono; dall’altro lato sembra quasi giustificare una società adulta (e anziana talvolta) che non lascia spazio ai giovani, e si tiene saldamente abbarbicata a ruoli e funzioni che tanto gli ultimi arrivati non saprebbero svolgere bene. La colpa di questi studenti in costante peggioramento, in una sorta di antidarwinismo educativo, varia a seconda dei casi. È delle famiglie, dei computer, degli insegnanti che li hanno avuti prima, ovviamente, di chi esprime il giudizio…
Cosa hanno in comune questi due giudizi, a parte la loro negatività e la superficialità legata ad ogni luogo comune? Levano fiducia. Chi, arrivato alla fine del quinquennio, si dovrebbe preparare a dare il suo contributo fattivo alla società, si vede spesso squalificato proprio da quegli adulti che, a loro volta, dovrebbero essere pronti a lasciare il palco per chi ha energie più fresche, prospettive inedite, nuove forme di intelligenza.
Sono fermamente convinto che oggi gli studenti, se proprio devono essere accomunati in un giudizio complessivo, siano, prima di tutto, pazienti. Sono in grado di resistere, di sopportare e di sopportarci, di andare avanti, nonostante tutto quello che li circonda e tutto quello che si profila all’orizzonte. E lo fanno sorridendo, anche se, forse, avrebbero il pieno diritto di essere un tantino arrabbiati. Guardando questi ragazzi che si preparano all’esame di Stato il primo sentimento è, dunque, di profonda ammirazione: nonostante tutto, nonostante le prospettive, nonostante i giudizi stroncanti, nonostante i dubbi e le paure, si sono fidati di noi, e sono arrivati.
Hanno deciso di rispettare le regole del gioco, anche se sanno che sono costruite, in certa misura, a loro danno. Speriamo di essere in grado di cambiare queste regole prima che il conflitto generazionale assuma contorni drammatici e incontrollabili. Speriamo che la nostra società permetta di nuovo agli ultimi arrivati di avere il loro spazio, di dettare le proprie regole. Speriamo che anche quest’anno l’esame non sia solo di Stato, ma ancora una volta di Maturità, e mandi nel mondo un’altra generazione pronta a lasciare il segno. Solo così ci sarà il domani.