Contrariamente alle previsioni circolanti negli ultimi giorni, il brano da tradurre come seconda prova d’esame di Stato era di Luciano. L’autore è noto agli studenti, non solo perché fa parte del programma di letteratura dell’ultimo anno (anzi “dell’ultimo mese”, e perciò potrebbe essere stato accostato un po’ velocemente), ma anche perché al ginnasio quasi tutti hanno tradotto, di Luciano, qualche passo dai Dialoghi o dalla Storia vera, opere che devono la loro fortuna, più che al loro contenuto, proprio al fatto di essere scritte in una lingua semplice.



In realtà non tutto, di questo retore e scrittore non greco ma siriano (anche lui ha imparato il greco sui banchi di scuola! E lo ha imparato benissimo…) del II secolo d.C., è di semplice lettura: ne è prova il fatto che già più volte sono stati proposti agli esami di maturità testi estrapolati da qualcuna delle sue innumerevoli opere.



Il passo proposto quest’anno, di una certa ampiezza, dal punto di vista delle strutture sintattiche non presenta difficoltà insormontabili: dovevano essere riconosciuti costrutti che si devono supporre noti perché frequenti nella lingua greca, come participi predicativi o articoli sostantivati grazie alle particelle mén e . Risultava più difficile comprendere il senso del passo, proprio per la capacità allusiva tipica di Luciano, che sempre cita, ma spesso appunto solo con allusiva deformazione, i grandi (o piccoli) autori della tradizione: la prima riga per esempio conteneva una citazione omerica, là dove si dice che l’ignoranza sparge una nebbia sulle cose, perché Luciano usa lo stesso verbo che Omero utilizza per parlare della nebbia della morte che vela gli occhi dell’eroe quando cade, colpito dal nemico. Se questo riferimento non è stato còlto, poco male: in altri punti l’interpretazione però era necessaria per poter arrivare a un testo di senso compiuto, come per esempio quando si dice che le stirpi dei Labdacidi e dei Pelopidi (cioè la stirpe di Edipo e la stirpe di Agamennone: due filoni mitici che fondano la cultura greca) sono “spunti” per una rappresentazione tragica, oppure quando si dice che che le vicende negative “sono portate in teatro dall’ignoranza”: solo riflettendo attentamente, e ricordando l’atteggiamento cinico di Luciano, si poteva cogliere che l’ignoranza, “quasi divinità della tragedia”, non è colei che mette in scena le vicende in teatro ma che le mette in scena nel teatro del mondo, con un’allusione metaforica di non immediata interpretazione. 



La seconda parte del testo (con una piccola difficoltà sintattica: il verbo lego [dire] usato senza complemento oggetto) sposta il discorso dall’ignoranza alla menzogna (in realtà il passo di Luciano è l’inizio di un breve scritto che parla proprio della menzogna), con un nesso logico lasciato implicito: non bisogna credere a tutto quello che ci viene detto, è ignoranza anche dar credito a tutto quello che sentiamo. 

Così l’ignoranza ci costa cara, porta alla rovina regni famosi ma anche distrugge famiglie e amicizie: non cercare di appurare la verità, nel pubblico e nel privato, conduce alla distruzione. L’universalità, e quindi l’attualità e anzi addirittura il possibile riferimento alla cronaca di questi giorni, di questo ammonimento, è di immediata percezione: sarà forse questo il motivo per cui la scelta del ministero è caduta su questo brano? 

Non posso fare a meno di notare però che l’atteggiamento di Luciano non è costruttivo, ma, come accennavo prima, è cinico e irridente nei confronti di una cultura incapace di vera costruttività; infatti anche i suggerimenti, per altro impliciti, che si possono trarre dal nostro testo, non sono propositivi ma si pongono solo su una linea difensiva. Forse anche l’impero romano del II secolo era un paese per vecchi?